Mentre nell’Unione continua il trend del ‘minimo indispensabile’ sotto il segno ideologico del decennio trascorso – si veda l’ultimo Consiglio europeo che ha approvato la creazione di un fondo dell’eurozona dentro il bilancio dell’Unione e la riforma del Meccanismo europeo di Stabilità – appaiono del tutto tramontati i grandi programmi con cui Emmanuel Macron aveva iniziato la sua avventura all’Eliseo. Alla vigilia di elezioni europee dove le forze nazionaliste ed ‘euro-immobiliste’ potrebbero costruire una inedita maggioranza destinata a produrre il ridimensionamento sistematico dell’integrazione europea, l’idea di dare vita a un ambizioso piano di riforma volto all’istituzione di un’«Europa sovrana, unita e democratica» sembra del tutto accantonata. Delle molte potenziali iniziative enunciate a suo tempo dal Presidente Francese, ad oggi resta solo quella racchiusa nella timida decisione del Consiglio europeo del 15 dicembre scorso che non rispecchia affatto la pur legittima preoccupazione transalpina di orientare la creazione del nuovo fondo dell’eurozona in primis verso la salvaguardia della stabilità e al finanziamento dei beni pubblici europei. Di fatto si è dinnanzi a una potenziale decisione storica mancata, o – per dirla con Fabio Masini su «Formiche» – alla «montagna che ha partorito il topolino». Si sommi a questo la totale incapacità da parte dei governi europei dell’ultimo decennio di intervenire sull’impianto di Lisbona (cosa su cui lo stesso Macron aveva messo le mani avanti dicendo «cambiare un trattato non è un fine in sé, ma uno strumento al servizio di un’ambizione») al fine di modificarlo e/o di sfruttarne a fondo le, pur ridotte, potenzialità per fare fronte alla gigantesca mole di sfide sociali, politiche ed economiche che l’Europa si è trovata a fronteggiare sin dal 2008. Si tratta di uno scenario desolante che, tuttavia, non trova le sue radici esclusivamente nella pochezza progettuale e politica di chi – a partire da Angela Merkel – è stato protagonista sulla scena dell’Unione degli ultimi anni. Vi è infatti una questione di fondo che si continua a sottovalutare.
La prima cosa da dire è che è difficile definire degli accordi di riforma (sia pur a trattati vigenti) tra i governi dentro a un quadro europeo sottoposto a una pressione sociale crescente che si sfoga sugli stessi esecutivi nazionali (e la vicenda dei gillet jaunes, che ha un suo coté europeo, dimostra questa contraddizione tra i piani). Da questo punto di vista, come è stato sostenuto da Yanis Varoufakis, occorrerebbe in primis usare diversamente l’Europa che c’è per spegnere sia pur in parte l’incendio in corso al fine di creare un contesto migliore in cui, tramite un piano europeo capace di destinare 500 miliardi di euro l’anno in sviluppo e coesione sociale, sia possibile tamponare la disintegrazione in corso e mettere un freno alle contraddizioni distruttive tra le pressioni nazionali e le esigenze di coesione del quadro europeo. Secondariamente, ma più profondamente, occorrerebbe notare che la fase attraversata dal processo di integrazione europea è tale da comportare una messa in questione della stessa esistenza degli Stati nazionali come tali, che pure sono e restano i ‘signori dei trattati’. Le materie che la crisi ha posto al centro della discussione – dalla fiscalità, alla difesa europea – non possono essere risolte efficacemente senza entrare su un terreno che investe il nucleo stesso della sovranità statuale che, come ricordava Hobbes – capitolo XVIII del Leviatano –, concerne esattamente il controllo del fisco, degli eserciti e dell’opinione (e non della moneta). Si incontra qui una contraddizione interna alla logica del funzionalismo europeista che prevedeva di erodere progressivamente le sovranità nazionali fino a dare vita a un’autentica federazione europea, come si evince dalla stessa «Dichiarazione Schuman». Infatti questo metodo può funzionare nella misura in cui non tocca il cuore della sovranità statuale ma, nel momento in cui si appresta a cambiare la natura stessa del soggetto che promuove il processo, lo Stato nazionale, finisce con l’incontrare una ferma opposizione di tipo politico e giuridico.
La prima si connette al fatto che, per alcuni, lo stesso funzionalismo altro non è stato che il «riscatto europeo dello Stato nazionale» secondo la classica formula di Milward. Conseguentemente una parte dei cittadini e delle classi dirigenti nazionali non leggono la storia dell’integrazione come un tentativo di promuovere una federazione continentale e – in un momento di crisi – questa stessa parte ha buon gioco, su base nazionale, nell’impedire ai governi di dare vita a qualsiasi cessione che concerna il cuore stesso della sovranità nazionale. A ben vedere lo stesso Macron (e Mitterand prima di lui) non ha mai voluto – nonostante alcune roboanti dichiarazioni – mettere in questione il cuore della sovranità nazionale, limitandosi ad enunciare l’idea di cooperazioni scevre da ogni condivisione strategica (penso, a esempio, al seggio all’Onu francese e alla force de frappe). Paradossalmente si è giunti alle soglie di una fase in cui Trattati potrebbero – per la prima volta – essere riaperti al fine di indebolire e non di rafforzare il quadro politico dell’Unione (cosa che un futuro governo Salvini sarebbe, a esempio, disposto a promuovere). La seconda si lega alle sentenze di diverse corti nazionali, tra cui il Bundesverfassungsgericht che rendono quanto meno problematico far venire meno tramite un trattato internazionale il cuore stesso della sovranità nazionale. Il che fa pensare che anche in caso di un difficilissimo accordo politico sotto il segno del vecchio modello di integrazione, si vada incontro a diversi ostacoli di natura giuridica legati ai diversi ordinamenti nazionali. Una possibile via di uscita – da un punto di vista giudirico – sarebbe il cosiddetto metodo della «Convenzione di Filadelfia» (seguito da un referendum paneuropeo confermativo) di cui, tuttavia, si sottovalutano le irriproducibili condizioni e i drammatici esiti di medio periodo.
In presenza di una sfera pubblica europea frammentata su base nazionale e della esigenza per risolvere i problemi comuni, di una fiscalità dell’eurozona e un esercito unico, non è quindi accidentale che non si siano visti nuovi trattati europei dal 2007 (il cosiddetto «Fiscal Compact» è un trattato internazionale definito al di fuori del quadro giuridico dell’Unione). Siamo finiti in un vero e proprio ‘vicolo cieco’ del funzionalismo, una strada al momento senza uscita con cui un confronto critico risulta particolarmente difficile per chi si è formato all’interno di questa prospettiva e non riesce a pensare al di fuori della stessa. Di conseguenza diverse elite europeiste promuovono e reiterano un metodo che, visto il punto di condivisione della sovranità a cui si è giunti e il tipo di difficoltà politiche sul campo, non può funzionare come in passato. Le questioni d’interesse comune, non potendo più essere affrontate e risolte con i vecchi strumenti, restano drammaticamente aperte dando vita a diversi tipi di nazionalismo che, in ultima istanza, possono far venire meno l’esistenza stessa dell’integrazione europea. A riguardo, come è stato compreso da Jan Zielonka, non è necessario promuovere attivamente fenomeni di exit o di distruzione attiva della casa comune europea. Basta, per la sua attuale struttura, semplicemente bloccarne definitivamente il processo di auto-trasformazione, condannandola così alla morte per mancato funzionamento.
Ma che fare, allora, nel momento in cui i governi, da un lato, non manifestano alcuna volontà politica di procedere celermente e attivamente alle trasformazioni necessarie del quadro europeo e, dall’altro, si trovano a prendere delle scelte in un contesto in cui il funzionalismo vecchia maniera risulta essere giunto a un binario morto? In contesto cioè in cui l’appello ai governi per un salto in avanti dell’integrazione europea risulta del tutto privo di possibilità ‘progressive’? Occorrerà, in primis, un cambio di paradigma che faccia entrare un attore inedito sulla scena: i cittadini. Questi ultimi sino ad oggi sono stati chiamati al massimo a ratificare su base nazionale accordi presi altrove. Essi devono invece diventare protagonisti dell’integrazione europea, creando delle nuove soggettività politiche transnazionali che, rompendo la crosta delle opinioni pubbliche nazionali (e del circolo vizioso ad esse connesso), sappiano dare vita a delle iniziative europee orientate all’interesse comune. I cittadini stessi dovranno promuovere in questo modo un nuovo processo costituente che operi a partire dalla rottura destituente in corso invertendone il segno. Si tratta di una prospettiva da non sottovalutare, considerato che ad oggi l’alternativa – visto il vicolo cieco in cui si è, non a caso, finiti dal 2007 – risulta essere il perfezionamento in senso autoritario e plebiscitario della lunga crisi della democrazia in Europa e l’apertura definitiva dei nostri paesi a potenze pronte a ridurre l’Europa a una balcanizzata periferia turistica dei loro autocratici imperi.
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