«Io che avrei dovuto saper morire, vivrò per sempre una vita infelice». È quanto esclama Admeto, il protagonista maschile dell’Alcesti, una delle più intense tragedie di Euripide. A differenza della giovane moglie, che ha scelto di affrontare liberamente la morte, piuttosto che sopravvivere alla scomparsa dell’amato, Admeto non ha «imparato a morire». Di qui, il suo inconsolabile dolore. Di qui, il suo tardivo ravvedimento.
Dopo la grande stagione della tragedia classica, e fino alla nostra contemporaneità, il processo di incivilimento può essere a grandi linee descritto come il tentativo, solo raramente, e comunque parzialmente, riuscito, di imparare a morire. Di imparare che vivere non è sempre, e a qualunque condizione, meglio di morire. Che la morte non è l’opposto della vita, ma è invece il termine correlativo della nascita, perché nascita e morte appartengono entrambe alla vita. Che il morire non è un atto istantaneo, ma è un processo che comincia con la nascita e si conclude con la morte.
Fra gli aspetti in assoluto più importanti, anche se ignorati o male interpretati, della pandemia che ci sta affliggendo, vi è certamente la cancellazione di ciò che, nel corso dei secoli, avevamo ‘imparato’ a proposito della morte. Tutte le energie degli operatori sanitari, l’intera organizzazione delle cure offerte dalle strutture ospedaliere, l’approccio dei medici nel trattamento dei pazienti affetti dal Covid-19, tutto è stato unilateralmente ispirato ad una logica bellica, allo schema vittoria o sconfitta. Dove l’esito del combattimento è stato valutato sulla base del calcolo aritmetico dei decessi o dei guariti.
Senza che a nessuno sia venuto in mente che, se è importante – e ovviamente prevalente su ogni altro aspetto – lo sforzo di strappare alla morte il maggior numero possibile di persone, non è irrilevante il modo col quale altre persone muoiono. Abbiamo così assistito, tramite agghiaccianti riprese televisive, al violento sradicamento di tanti esseri umani dal sistema dei loro affetti più cari, senza che ad essi fosse concesso il gesto estremo dell’addio, senza che nel momento del commiato fosse possibile avvertire il calore di un bacio o di una stretta di mano. Inchiodati alla partita doppia dei morti e dei dimessi, abbiamo dimenticato quanto possa essere importante il modo di morire.
Il virus ha provocato un gran numero di vittime, privandole della vita. Ma ha anche cancellato quell’accompagnamento al morire che è stato a lungo il segno di una civiltà che si era lasciata alle spalle la logica ferina del duello fra vita e morte. Le devastazioni prodotte dall’imperversare di quell’agente subdolo che è il virus sono a tutti ben note: centinaia di migliaia di morti, interi settori economici spazzati via, dinamiche sociali esasperate fino al punto da essere fuori controllo.
Ma non dovremmo ripetere l’errore di Admeto. Non dovremmo dimenticare quanto sia irrinunciabile aver imparato a morire.
umberto Curi dice
La ringrazio vivamente per le sue parole – davvero molto “sensibili”. E’ stato anche per me emozionante leggerla.
Grazie e un caro saluto.
Umberto Curi
Marta Regalia dice
E’ emozionante leggere queste parole. Soprattutto in relazione all’età anagrafica di chi le scrive. In un’epoca in cui pare ormai che l’unica cosa importante sia “non morire”, chi chiede di “vivere” è additato come folle. Credo che solo chi abbia potuto e, più importante, saputo sfruttare a pieno e gustare la propria vita sia in grado di comprendere quanto lei scrive.
Ovviamente estendo il ragionamento non solo alla “guerra” contro il virus, ma anche alla quotidiana lotta di chi si rifiuta di comprendere che morire (con dignità, avendo il tempo del commiato) fa parte del vivere. “Sol chi non lascia eredità d’affetti poca gioia ha dell’urna”.