Siamo un paese di vecchi: lo dicono tutte le statistiche. Siamo secondi solo al Giappone. Il Giappone si sta attrezzando da tempo con robot assistenti. Noi, pur lamentandoci degli immigrati, importiamo badanti.
La vecchiaia è un problema: sociale, economico, politico. La prevalenza di vecchi sta trasformando radicalmente la nostra società. La immobilizza e costringe i pochi giovani rimasti a cercare opportunità altrove. Tutto ciò ha conseguenze economiche di non poco conto. Visto che si è voluto risparmiare sulle pensioni prolungando l’età che consente di maturarne il diritto, non dobbiamo poi sorprenderci se, alla fine, a risentirne è la dinamica produttiva dell’intero paese. È tuttavia a livello di mentalità condivisa che i vecchi spadroneggiano, imponendo i blocchi, le paure e le fissazioni proprie della loro età. Ed è dunque a tale forma mentis che molte narrazioni politiche fanno riferimento, facendo leva su di essa per ottenere consenso.
Intendiamoci: io stesso sono vecchio. E forse anche perciò diffido di quella retorica giovanilistica che ogni tanto s’affaccia alla ribalta della storia. Ma non posso ignorare che il problema esiste, e non solo su di un piano sociale, economico, politico. Si tratta anche, e forse soprattutto, di una questione esistenziale. Si tratta del modo in cui possiamo fare i conti con il nostro invecchiare. È in gioco il senso stesso della nostra vita.
A questo proposito la filosofia può dire qualcosa. Può farlo se, in conformità con buona parte della sua tradizione, si configura non tanto come riflessione astratta sui massimi sistemi, ma come un modo di fare i conti con le nostre esperienze. E se le cose stanno così, per prima cosa da un punto di vista filosofico possiamo allora distinguere il dato della vecchiaia dal processo dell’invecchiare.
La vecchiaia è uno stato, una condizione, qualcosa di fissato irreversibilmente. L’invecchiare è un modo di essere, legato certamente al passare dell’età, ma attraversato anche dalla consapevolezza che andare incontro alla vita implica, comunque e sempre, una dinamica imprevedibile, un’apertura di possibilità. La vecchiaia, come fase della nostra esistenza, è la presa d’atto di una perdita e di un declino. Perdita e declino possono venir esorcizzati, in ultima analisi, solo dalla speranza che la morte non abbia l’ultima parola. L’invecchiare si sviluppa invece nell’esercizio stesso di quelle opportunità che sempre e di nuovo ci si propongono, e che si presentano anche a chi non è più quello di un tempo. In tal modo l’inevitabile, certo, rimane tale, ma non è più solo un destino, bensì è un’occasione d’esperienza.
Dobbiamo dunque cambiare mentalità. E per farlo bisogna prendere sul serio, davvero, il movimento dell’invecchiare. Dicevano gli antichi che un essere umano, appena nato, è già abbastanza vecchio per morire. Questo vuol dire che il fenomeno dell’invecchiare, che ci pensiamo o no, riguarda tutti: giovani e vecchi. L’invecchiare, dico, non già la vecchiaia come condizione legata all’età.
Ciò avviene perché la nostra vita è intessuta di tempo. E il tempo non è un binario destinato a condurre, prima o poi, al capolinea. Ogni istante, ogni momento temporale, è apertura di possibilità, è nodo di relazioni, è centro di un molteplice agire. Ecco perché anche il giovane sta invecchiando: vive cioè un tempo non più lineare, ma tale da permettere un suo irradiarsi in direzioni sempre nuove.
Se le cose stanno così, l’irreversibilità del tempo non è più un problema. Non già perché essa scompare, ma perché in ogni momento sono possibili e possiamo sperimentare altri percorsi. Possiamo farlo a patto di non fissarci su qualcosa di unilaterale, di non aderire a un orizzonte determinato, di non accettare che le nostre relazioni s’irrigidiscano una volta per tutte. In noi stessi, proprio in noi, c’è infatti sempre un oltre.
Ecco perché, se da un punto di vista sociale, economico, politico, il numero crescente di vecchi è un problema che va affrontato pubblicamente e con specifiche misure, in una prospettiva filosofica la questione può essere affrontata solo facendo i conti con noi stessi. Noi non siamo giovani o vecchi. Tutti invecchiamo, tutti possiamo ricadere nelle fissazioni della vecchiaia. E dunque vivere adeguatamente l’esperienza dell’invecchiare non significa negare la realtà delle cose – il fatto che molto di ciò che eravamo va perduto, e che la quantità di tempo che ci rimane da vivere diminuisce sempre più –, ma significa tener presente che vi sono sempre ulteriori possibilità, fino alla fine, e che queste si dischiudono davanti ai nostri occhi solo se impariamo a vederle. Insomma – parafrasando ma rovesciando il motto degli antichi – l’essere umano, anche approssimandosi alla morte, è sempre già abbastanza giovane per vivere: per vivere ancora, per vivere davvero.
Laura Paoletti dice
L’auspicio conclusivo è condivisibile, naturalmente. Ma, prima o poi, almeno per i più, la soglia indiscutibile della vecchiaia arriva. Forse è rappresentata dal venir meno dell’ ‘attesa’?