Nei periodi di crisi emerge – quasi istintivamente – la voglia di isolarsi dagli altri, sia per gli individui che per gli Stati. Ci si chiude per non essere contagiati dalle debolezze altrui, per il timore che i diversi ci rubino le nostre, seppur precarie, posizioni di raggiunto benessere e spesso per la paura del nuovo. Si ha bisogno di soluzioni nuove per evitare di riproporre quelle stesse politiche che ci hanno condotto nella crisi sperando che ora ce ne tirino fuori. La storia pullula di casi simili ed anche oggi – con la crisi scoppiata 10 anni fa e non ancora risolta – si ripropone. Ma la storia non è mai uguale e anche stavolta è diversa e semmai più preoccupante. Siamo oggi infatti in presenza di 2 fattori in azione congiunta: la globalizzazione e la quarta rivoluzione industriale. Stavolta è però differente perché c’è tensione tra il protezionismo che rafforza le spinte – protezioniste in economia – verso gli stati nazionali e la necessità del loro superamento dettato dalla necessità di redistribuzione del reddito e dall’ecologia, per via del cambiamento climatico indotto dall’attività dell’uomo (e di cui le migrazioni sono solo una conseguenza e un epifenomeno).
Seppure mal governata, guidata dalle politiche neoliberiste, la globalizzazione ha – tra l’altro – prodotto la riduzione della povertà assoluta, ma un aumento della disuguaglianza e della povertà relativa. Nello stesso tempo la rivoluzione informatica ha provocato la scomparsa della classe media e la crisi del sistema di protezione sociale fondato su di essa. L’economia senza occupazione stimola nuovi orizzonti dove le macchine e non l’uomo svolgono i lavori meno creativi. Una economia in cui i lavori “pesanti” siano quelli delle macchine, presenta rilevanti novità. Occorre iniziare ad interrogarsi seriamente alla re-distribuzione delle risorse nella forma di un reddito di base da erogare in cambio di lavori socialmente utili. Per un’effettiva re-distribuzione ci vuole però un organismo sovrastatale in modo da evitare fenomeni individuali e di singoli Stati di free-riding. L’idea di Stato nazionale è così superata: anziché sostituirli con – poche – multinazionali c’è bisogno di un ente politico di rappresentanza globale, una entità sovranazionale che consenta di superare la cosiddetta tragedia dei beni comuni (mari, fiumi, atmosfera ecc.) cioè lo sfruttamento ed il progressivo esaurimento di una risorsa comune da parte di individui che agiscono in modo razionale ed egoistico, seguendo il proprio interesse individuale, nonostante il fatto che sfruttare la risorsa comune sia contraria agli interessi di lungo periodo del gruppo. Questa tragedia può essere letta come un esempio di fallimento del mercato.
Il reddito di base assume i caratteri di un dividendo sociale, di un sostegno ad una domanda fiaccata dalla stagnante occupazione. Le spese sociali in previdenza e contro la disoccupazione saranno superate ed il processo produttivo sarà co-operativo tra lavoro, capitale e natura. L’economia cambia struttura: poiché il rischio di impresa in tale contesto è simile al rischio di disoccupazione, si andrà verso l’economia della partecipazione. Una condivisione che renderebbe superflue le lotte sindacali, mentre le ore lavoro andranno a diminuire.
Se le risorse sono limitate, anche la crescita da risorse non riproducibili lo è. In una economia dove il settore manifatturiero è morente e dove nel terziario le macchine rimpiazzano gli uomini, nuovi bisogni e quindi nuovi lavori vanno inventati perpetuando l’economia del criceto (M.Gallegati, Acrescita, Einaudi, 2016). Si dovrebbe provare a liberare il criceto, aprendo la gabbia per agevolare un cambio di paradigma dove anche le ore di lavoro si ridurranno. Se si lavora di meno, anche la domanda diminuisce mentre l’offerta può aumentare anche con meno occupazione se la tecnologia diviene più efficiente. Una sproporzione insostenibile che deve riequilibrarsi, per mezzo della redistribuzione realizzabile attraverso la fiscalità di scopo ed un sistema di controllo – sull’esempio dei commons – sui beni produttivi. Dato il vincolo delle risorse, non è così difficile immaginare una politica che valuti l’ecologia – il capitale naturale di tutti – a scapito dei profitti predatori di pochi. Perché se è vero che ogni individuo o Stato è per certi aspetti un’isola, la rete della vita li rende parte di un arcipelago.
Dino Cofrancesco dice
“L’idea di Stato nazionale è |..|superata: anziché sostituirli con – poche – multinazionali c’è bisogno di un ente politico di rappresentanza globale, una entità sovranazionale”; “Redistribuzione realizzabile attraverso la fiscalità di scopo ed un sistema di controllo – sull’esempio dei commons – sui beni produttivi”. Manca solo il “lavorare meno, lavorare tutti” di Rif.Com. Rimedi semplici e a portata di mano. Come non averci pensato prima?