Che l’Europa debba ormai prepararsi (e rassegnarsi!) a diventare multietnica non può creare alcun dubbio, se non in coloro che testardamente rifiutano di ragionare sugli inequivocabili dati economici, demografici, politici, religiosi e bioetici del nostro tempo.
Come però si possano costruire comunità multietniche pacificate, solidali, scevre da tensioni razziali, religiosamente tolleranti, e soprattutto bioeticamente eque, questo nessuno è ancora in grado di dire. Le dinamiche volte a costruire e consolidare un diritto alla salute aperto a una piena integrazione degli immigrati, anche le più illuminate e le più generose, si stanno rilevando faticose, equivoche, per non dire fallimentari.
Qualche rapido esempio: crea grosse difficoltà ragionare serenamente sul modello adottato nel Regno Unito, che ha favorito (con quanta consapevolezza è difficile a dirsi) il riconoscimento al proprio interno di ordinamenti giudiziari etnici e bioetici autonomi, paralleli a quello tradizionale anglosassone. In tal modo si sono di fatto avallate legalmente pratiche familiari per noi europei assolutamente inaccettabili, come quelle calibrate su modelli di carattere pesantemente paternalistico, che negano alle giovani generazioni – quelle nate nel Regno Unito! – ogni possibilità di autodeterminazione.
A sua volta Il modello francese, illuministicamente e ingenuamente convinto del primato ideologico del principio di laicità, ha favorito il crearsi di inquietanti spazi territoriali non solo etnicamente e bioeticamente differenziati, ma anche socialmente e sanitariamente inquietanti. Come percepisce immediatamente chiunque, ad es., abbandoni il centro per avventurarsi nelle ‘banlieues‘.
Né meglio sta funzionando il modello scandinavo, che ha deciso orgogliosamente di venire incontro con generosi sussidi sociali ed economici ai problemi degli immigrati, ma che alla fine è giunto a riconoscere l’impossibilità di realizzare un ragionevole equilibrio tra le esigenze crescenti delle loro comunità e gli ancor più crescenti disavanzi dei bilanci pubblici.
La realtà è che l’integrazione etnica, se è difficile a livello sociale, lo è infinitamente di più a livello etico e bioetico. Si tratta, infatti, di una dinamica multifattoriale, che nessuno è ancora riuscito ad esplorare fino in fondo e che ha al suo centro il nodo gordiano dell’identità. Un nodo che nessun algoritmo riuscirà mai a controllare, perché in esso si intrecciano esigenze antagonistiche, spirituali e materiali, individuali e collettive, radicate in una storia passata, che non è più proponibile, e proiettate in paradigmi futuribili illusori, ambigui e problematici.
La verità è che nel mondo di oggi una compiuta integrazione etnica e bioetica è tanto necessaria quanto utopica, e che ogni passo in avanti che facciamo per realizzarla si accompagna inevitabilmente a tanti passi indietro, di cui spesso non prendiamo nemmeno coscienza. La vicenda della diffusione del Coronavirus è istruttiva: se è un principio bioetico assoluto quello di garantire a tutti i malati le cure opportune, l’individuazione per ciascun malato, di ciascuna etnia, della cura più opportuna apre dibattiti laceranti e allo stato attuale non componibili.
Ecco perché gli innumerevoli progetti, gli interminabili dibattiti, i nobili auspici che hanno al loro centro le dinamiche migratorie suonano alle orecchie della maggior parte di noi quasi sempre a vuoto. Il che, naturalmente, non comporta né giustifica atteggiamenti di resa, nei confronti di quello che ormai appare chiaramente come il più complesso problema dei primi decenni del terzo millennio.
Ma è comunque giunto il tempo di assumere, nei confronti di un’ umanità che ha fatto del ‘nomadismo’ il suo tratto più caratteristico, un atteggiamento che superi gli angusti confini delle scienze umane e della stessa bioetica pensata come disciplina accademica: è indispensabile assumere un atteggiamento diverso, che si dovrebbe avere il coraggio di definire, senza timidezze, ‘sapienziale. Il nomadismo non andrebbe analizzato, come si continua a fare, studiando in primo luogo le masse, ma ragionando sugli individui, quindi anche, e soprattutto, su noi stessi.
Dobbiamo riconoscere e mettere in discussione il vuoto di identità che ci è stato trasmesso dalle generazioni che ci hanno preceduto: un vuoto che il più delle volte la maggior parte di noi non è più nemmeno in grado di riconoscere. Dobbiamo percepire come un dovere inderogabile quello di costruire, insieme ed accanto agli altri, una nuova identità umana, che sostituisca quella di oggi, così frantumata, umiliata e violentata.
Infatti, in qualunque modo si struttureranno eticamente le società multietniche di un futuro, che è già, sotto molti profili, un presente, esse non potranno che essere società ‘nuove’. E per affrontare il ‘nuovo’ nella sua imprevedibilità si richiede non solo coraggio, ma volontà di operare per il bene: una categoria, questa del bene, che le scienze umane hanno da decenni indebitamente trascurato, ma di cui devono riappropriarsi e che deve tornare a muovere, costi quello che costi, le intenzioni profonde di ciascuno di noi.
Carmelo Vigna dice
D’accordo, Francesco. Il compito che il multiculturalismo ci mette innanzi è immane. Ma non possiamo non tentare di onorarlo (ne convieni anche tu). La mia modesta indicazione: mirare (di nuovo) a un accordo politico (universale, in qualche modo) sull’umano che ci è comune (come si tentò di fare, ad es., nel dopoguerra). Rispettare (e accogliere, se si vuole) quello che può arricchire “l’umano comune”; contrastare (e vietare) quello che “l’umano comune” può ferire (o distruggere). Purtroppo, l’alternativa è solo… Babele…”
Marco Tarchi dice
Il “piccolo” problema è che la categoria del bene è, per eccellenza, di ordine etico. O meglio, è il fondamento dell’etica, come tutti sappiamo. E ricade nell’ambito più vasto delle identità culturali, o meglio – se il politicamente corretto consente di dirlo – etnoculturali. Interpretazioni diverse, e a volte opposte, di ciò che è bene e ciò che non lo è, ci sono e ci saranno, rendendo la vita delle società multietniche sempre molto conflittuale. I testardi che non vogliono ammetterlo non sono meno utopisti di coloro che non si rassegnano all’inevitabilità di questo orizzonte. Su cui le pandemie hanno ancora molto da dire. Nel “mondo post Covid-19” di cui ossessivamente ci si parla da ogni parte, cambierà tutto meno i flussi migratori e la loro accettazione? Che straordinaria eccezione…