La scelta del termine «post-truth», in italiano «post-verità», come parola dell’anno da parte dell’Oxford Dictionary avrebbe potuto entrare a far parte di quelle curiosità dicembrine, quando si stilano bilanci e classifiche di un anno che se ne sta andando, qualcosa quindi di cui si discute nelle pagine culturali o in qualche editoriale erudito, insomma da lasciarsi rapidamente alle spalle a fronte di questioni più serie. Non è invece andata così, per fortuna.
Intanto ricordiamo il preciso significato del termine e la ragione della sua indicazione come parola dell’anno. Il significato: «post-truth» è un’aggettivazione definita come «relativa o denotante circostanze nelle quali i fatti oggettivi sono meno influenti nel formare l’opinione pubblica rispetto alle emozioni e alle credenze personali» (https://en.oxforddictionaries.com/word-of-the-year/word-of-the-year-2016). Le ragioni dell’indicazione come parola dell’anno sono da riportare alla crescita esponenziale del suo uso (in ambito anglofono, secondo il sito dell’Accademia della Crusca [http://www.accademiadellacrusca.it/it/lingua-italiana/consulenza-linguistica/domande-risposte/viviamo-nellepoca-post-verit], del 2000% rispetto al 2015) legato soprattutto a due eventi politici dirompenti quali la Brexit e l’elezione di Donald Trump alla presidenza degli Stati Uniti. Nella campagna pro-Brexit e nella campagna elettorale americana si è fatto ampio uso di notizie facilmente smentibili e che tuttavia sono risultate efficaci nell’orientare l’opinione pubblica: Annamaria Testa in un suo intervento su Internazionale on-line (http://www.internazionale.it/opinione/annamaria-testa/2016/11/22/post-verita-facebook-trump) cita i fact-checker del Washington Post, ovvero il grado di falsità di notizie fatte circolare misurato in Pinocchi, ricordando le ben 59 affermazioni da quattro Pinocchi di cui si è giovato Donald Trump nella sua campagna, con esempi del tipo: «La disoccupazione negli Usa è al 49 per cento» – in realtà è al 5 per cento.
Carattere marchiano delle menzogne e loro entità però potrebbero sconvolgere relativamente. Qualcosa di veramente nuovo? Non cantava Don Basilio in una nota aria del Barbiere di Siviglia «la calunnia è un venticello …» con quel che segue, vantando l’efficacia e il vantaggio del diffondere falsità? Ma il termine «post-verità» dice qualcosa di diverso dalla falsità o dalla calunnia: dice che alla verifica di un’affermazione o di una notizia mediamente non siamo più interessati e questo apre a dinamiche insospettate. Perché amplia i vantaggi e riduce le perdite di chi lucra sulle fake-news, ovvero su notizie palesemente false: nel dibattito su questi eventi e il ruolo della post-verità si sono evidenziati, indicando precisi luoghi e circostanze, i guadagni, in termini di visualizzazioni e quindi anche di raccolta pubblicitaria, di siti che lanciano e rilanciano falsità attrattive. La denuncia della CIA sulle intrusioni di hacker durante la campagna elettorale americana ha aperto uno squarcio sulle forme striscianti di guerra che si combattono attraverso l’informazione e la disinformazione e generato allarme sulla vulnerabilità dei sistemi europei in vista dei prossimi delicati appuntamenti elettorali.
Di nuovo, verrebbe da dire, niente di sconvolgente: i conflitti internazionali si sono sempre combattuti anche a colpi di disinformazione e far circolare false notizie è stato ed è un modo non originale di far soldi. La novità allora sarebbe nell’effetto moltiplicatore della rete, nella smisurata quantità di destinatari raggiungibili e di potenziali ripetitori attraverso le diverse forme di rilancio e comunicazione dei social. E nel modo di assumere e vivere l’informazione, con un primato del lato emozionale, con un’immediatezza e un’adesione che prescinde dalla faticosa ricerca di riscontri, spesso anche della leggera fatica di cliccare un altro sito o della riluttanza ad aprire una fonte avversata o odiata. Il più delle volte basta la fonte amica, il luogo abitudinario o condiviso, anche questo ormai con il suo nome tecnico di «echo chamber», «camera dell’eco», dove risuona solo ciò che ci piace sentire.
Rimedi? In un’intervista rilasciata a fine 2016, il Presidente dell’Authority Antitrust italiana, Giovanni Pitruzzella, ha messo di fronte al bivio configurato dalla situazione attuale, cioè scegliere «se lasciare internet così com’è, un west selvaggio, o se necessiti di regole che tengano conto dei cambiamenti del modo di comunicare» (https://www.ft.com/content/e7280576-cddc-11e6-864f-20dcb35cede2), proponendo di creare autorità di controllo a livello nazionale e con coordinamento europeo, per denunciare e bloccare le fake-news. La proposta è stata criticata da chi rigetta per principio qualsiasi intervento di autorità sulla rete. C’è da temere che la proposta, pur dettata da una legittima preoccupazione, si riveli alla fine una toppa peggiore del buco: per il modo di stare sulla rete il solo lancio di una notizia poi bloccata come falsa raggiungerebbe già il risultato che si prefiggeva, con l’aggravante di poter far immaginare chissà quali complotti e poteri forti a fermarne la circolazione, sì da accreditarne la verità piuttosto che denunciarne la falsità.
Allora semplicemente rassegnarsi all’inerzia dell’epoca? Da ciò che è in gioco nella «post-verità» viene una sollecitazione alla presa di coscienza di come l’ambiente costituito dalla rete ha cambiato e sta cambiando il nostro modo di vivere, di tutti noi, di ogni età e condizione: il cyber bullismo come piaga sociale dice come il vivere il sesso, il privato, l’amicizia a livello delle giovani generazioni possa essere stravolto e debba essere affrontato attraverso una vera e propria educazione all’uso della rete. Ciò vale anche per l’accesso e la riproduzione dell’informazione: educare all’uso della rete significherà avviare un’alfabetizzazione emotiva, culturale, politica, né più e né meno che come insegnare a tenere la penna in mano, far imparare le lettere, i numeri, perché si può essere tecnologicamente evoluti e totalmente analfabeti nell’abitare la rete.
Nell’attesa, però, urgerà capire che tutto ciò che gira intorno alla «post-verità» ha per posta in gioco noi tutti, il livello della nostra convivenza e della nostra partecipazione. Informarsi sulla rete, reagire alle notizie, esprimersi sui social, sono tutte azioni di rilevanza pubblica, effetto della trasformazione di quello che è stato chiamato «quarto potere», il potere dell’informazione, in un potere diffuso che nel nuovo ambiente ci riguarda tutti come fruitori e come attori. Se, come dice il significato di «post-verità», non siamo più interessati ai fatti, e forse neppure alle favole, perché in fondo anche le favole e le narrazioni comportano una qualche coerenza ed una memoria, se lo zapping totale nelle nostre vite ha ridotto la nostra misura del tempo all’istante di un ‘like’ o ‘unlike’, allora predisponiamoci ad inanellare una serie di post- altrettanto pericolosi. Se oltre un paio di secoli fa il filosofo Immanuel Kant aveva vincolato la verità alla legge morale in modo persino troppo rigido ai nostri occhi di contemporanei adusi alla complessità delle situazioni, richiedendo che il parlare e il promettere fossero sempre veritieri, era perché aveva colto il nesso profondo tra istanza di verità e comunità: senza la prima la seconda non è destinata a durare. Prepariamoci allora anche alla post-responsabilità, in cui l’impegno della mattina potrà essere dimenticato la sera, o anche prima, e quindi alla post-comunità, perché le relazioni di necessità si faranno più sfilacciate e istantanee, fino alla post-comunicazione, dove magari chiedendo un’informazione stradale al vicino ci sentiremo dare l’ora esatta, non capendo se parla a noi o a quale dei suoi smartphone.
Occorre cominciare a coltivare con più attenzione il nostro stare in rete per cercare di salvaguardare un mondo vivibile per noi e per gli altri.
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