Quando si parla di cancel culture si fa riferimento a un fenomeno diffuso un po’ in tutto il mondo occidentale ma che negli Stati Uniti ha assunto dimensioni parossistiche. È di questi giorni, ad esempio, la notizia della rimozione della statua di Thomas Jefferson dalla New York City Hall, per via del suo ‘schiavismo’. Egli avrebbe posseduto infatti oltre seicento schiavi e in quanto tale non sarebbe più meritevole di alcun onore. Il fatto che sia stato il terzo presidente degli Stati Uniti e uno dei padri fondatori della nazione americana diventa insomma irrilevante.
Nel suo caso, come nel caso di molti altri grandi uomini politici, filosofi, scrittori, artisti o imprenditori filantropi di ieri e di oggi, si applica ormai un criterio di giudizio basato soltanto sulla particolare sensibilità morale e culturale di colui che giudica. Basta avere una sponda adeguata nel vasto e variegato mondo dei media e chiunque può essere messo all’indice.
Ciò che chiaramente manca a questo criterio di giudizio è il contesto, lo sfondo, il legame costitutivo di ciascuno di noi con la storia e le storie che contraddistinguono ciò che siamo, senza il quale ogni giudizio sul passato e sul presente rischia di essere semplicemente un’astrazione o, peggio ancora, l’espressione di una volontà che non riconosce altro limite che se stessa. A tal proposito credo che sia troppo riduttivo ritenere che la cosiddetta cancel culture esprime soltanto la degenerazione di una parte della cultura liberal americana, la quale, nel tentativo di riscattare le discriminazioni subite da certi gruppi sociali nel corso della storia (i neri, le donne, gli omosessuali, tanto per citarne alcuni), ha trasformato poco a poco il dibattito pubblico in una sorta di «guerra civile condotta con altri mezzi», secondo la celebre espressione di Alasdair MacIntyre. È certo anche questo, ma la degenerazione di cui stiamo parlando si esprime quotidianamente anche sul fronte opposto. Che cosa è stato l’assalto al Campidoglio dello scorso anno da parte dei seguaci di Donald Trump se non l’atto più eclatante, violento e criminale di una cultura animata ormai dalla sola volontà di affermarsi?
È la degenerazione dell’identità a concetto di battaglia, si potrebbe dire. Tramontato il mito del melting pot, ossia del crogiuolo capace di fondere insieme le molte culture in modo da esaltare quanto di meglio c’è in ognuna di esse, facendole marciare insieme verso uno ‘scopo comune’ (l’immagine è di Tocqueville), oggi la cultura americana sembra oscillare sull’orlo di un burrone: da una parte il minestrone indigeribile della cancel culture, figlia dell’insulsa ‘correttezza politica’ dei liberal; dall’altra l’esaltazione tronfia, astiosa di una presunta ‘grandezza’ americana che, senza disdegnare il razzismo, il sessismo o l’omofobia, è pronta a cancellare a sua volta tutto ciò che non corrisponde ai propri modelli. Questa non è più soltanto una polarizzazione politica; è piuttosto una vera e propria guerra di religione, condotta senza esclusione di colpi da entrambe le parti, a scapito di istituzioni che, di fronte a un confronto politico-culturale tanto lacerante, potrebbero non riuscire più a fare da tessuto connettivo.
Se ne sono resi conto i 150 firmatari, per lo più liberal, della famosa lettera-manifesto pubblicata nell’estate dell’anno scorso sulla «Harper’s Magazine». «Il libero scambio di informazioni e di idee, la linfa vitale di una società liberale, essi scrivono, incontra sempre più limitazioni. Se dalla destra radicale ormai ce lo aspettiamo, l’atteggiamento censorio si sta diffondendo ad ampio raggio anche nella nostra cultura: un’intolleranza verso le opinioni contrarie, la moda della gogna pubblica e dell’ostracismo e la tendenza a dissolvere questioni politiche complesse in una certezza morale accecante».
Premesso che di molti firmatari si potrebbe dire che incominciano a fare la morale dopo aver dato il cattivo esempio, è pur vero che la loro lettera coglie il punto della questione. «Questa atmosfera soffocante finirà per nuocere alle cause più importanti della nostra epoca». Già, proprio così. Solo che, per uscirne, occorrerebbe ricostruire un tessuto, uno sfondo comune, che sottragga la discussione pubblica alla mera volontà dei suoi protagonisti e la riconduca invece ai buoni argomenti, diciamo pure, all’uso della ragione, quindi alla realtà e alla verità.
Contrariamente a quanto molti pensano, la verità non è dogmatica, bensì plurale e aperta per definizione, visto che nessuno può pretendere di possederla tutta intera. Essa è sempre prospettica, parziale, persino relativa; si accresce grazie al confronto; ma soprattutto ha il grande vantaggio di promuovere la consapevolezza che, di qualsiasi cosa si parli, la bontà degli argomenti dipende, non dalla mia volontà di affermarli o dalla volontà del gruppo a cui appartengo, ma dalla loro conformità o meno all’oggetto di cui si parla. Un formidabile antidoto alle menzogne intenzionali alle quali, un po’ su tutti i fronti, rischiamo di fare l’abitudine.
Luca barbareschi dice
Finalmente una riflessione intelligente sulla catastrofe culturale a cui stiamo assistendo.
Ci sono dei buoni segnali.
Come la nuova università liberale che sta nascendo a Austin (Texas) in cui molti intellettuali interverranno
Mamet , boghossian, Chomsky Jordan Peterson e nel mio piccolo anche io con il film di Polanski J’accuse, contribuiremo spero ad un lucido e non dogmatico cambiamento
Prima di dover proibire anche le opere di Michelangelo Mozart e tutta la cultura occidentale e trasformare il mondo in un orribile seguito di 1984 di Orwell o nella Fattoria degli animali di A. Huxley
È un vero peccato che sia mancata o in questi anni Jonathan Sacks e Scruton che hanno combattuto per devenni questa valanga di idiozia
Luca barbareschi
Sergio Belardinelli dice
Grazie!
Purtroppo è così. E Roger Scruton, del quale ero amico, manca molto anche a me.
Cordialmente,
Sergio Belardinelli
Gianfranco Pasquino dice
immagino che sia l’ottimo spunto per l’apposito fascicolo di “Paradoxa” sulla cancel culture. E’ la strada giusta! Congratulazioni.