Avrei dovuto ascoltare il mio piccolo “campione” di studenti americani venuti in Italia a studiare il Bel Paese e a carpire i segreti delle sua grande, ma decadente, bellezza. Tutti rigorosamente bianchi, prevalentemente dell’America costiera (west and east), di famiglia medio-ricca, espressione di quel “mitico” ceto medio che cerca di resistere allo scivolamento progressivo verso un declassamento imposto dall’esterno, da eventi e fenomeni sui quali non ha alcun controllo e influenza. Tra di loro, solo una timida minoranza era disposta a votare per la dynasty clintoniana, espressione plastica di un establishment immutabile e, ai loro giovani occhi, indifendibile.
“Abbiamo pensato troppo agli altri, al mondo al di fuori degli Stati Uniti” – mi raccontava una giovane studentessa californiana, trumpiana di ferro – “ora è arrivato il tempo di rimettere l’America al primo posto: America first”. Magari non sarà così semplice e, probabilmente, rinchiudersi nel proprio recinto federal-nazionale mentre fuori infuria la tempesta perfetta (un mix di perdita di identità, smarrimento cultural-valoriale, polarizzazione delle diseguaglianze e declassamento per quella piccola borghesia incapace di stare al passo del mercato globale) è soltanto un’illusione, un ingenuo American dream. Ma questo è il vero significato del voto americano dell’8 novembre e dell’impensabile elezione alla presidenza di un maverick come Donald Trump.
Potevamo prevedere tutto ciò? Potevamo intercettare in anticipo questa trasformazione nella società americana che, peraltro, sotto molti aspetti, assomiglia ai mutamenti già intervenuti (e noti) tra i cittadini della Vecchia, e anch’essa vacillante, Europa? Non so se tutto questo era possibile, ma so di certo che neppure ci abbiamo provato. Nessuno studioso, compresi quelli americani, si è interrogato sulle trasformazioni profonde e sui cambiamenti negli stili di vita, nello status, nelle paure che hanno coinvolto la complessa e variegata società americana. E non lo abbiamo fatto – né noi (europei) né loro (americani) – perché ci siamo affidati totalmente, ciecamente, allo strumento più banale, meno affidabile e più volatile tra quelli che sono in circolazione per studiare quello che davvero ribolle nella società, nella cosiddetta “pancia” del paese. Ci basta l’arma del sondaggio – ecco svelato il mio bersaglio – per fingere di aver capito gli orientamenti e gli umori dei cittadini e per azzardare facili previsioni sul futuro.
Sarebbe troppo facile criticare i sondaggisti e gli esperti di analisi demoscopiche in generale dopo un flop come quello di martedì scorso. Non mi va di sparare sulla Croce Rossa propria ora che, come tanti comandanti Schettino, molti sondaggisti di punta cercano di scappare dalla nave dei sondaggi che affonda. Mi fanno anche un po’ tenerezza i tentativi posticci di coloro che provano a difendere l’indifendibile, tentando di nascondere i loro fallimenti dietro la coperta cortissima dei “margini di errore statistico”, facendoci capire che tutto – e il contrario di tutto – era previsto. Lo strumento è ormai chiaramente fallace, totalmente inutile e profondamente deleterio. È chiaro che da domani ripartiranno roundtable, workshop, conferenze e seminari per capire cosa è andato storto, perché il “campionamento probabilistico” non ha funzionato, perché la “stratificazione” socio-demografica era poco calibrata oppure perché il campione “rappresentativo” era, ebbene sì, poco rappresentativo. Affari loro, cioè affare di chi ancora crede che sia possibile capire/prevedere il comportamento di voto e le sue concrete motivazioni grazie ad un sondaggio preparato velocemente allo scopo. Io non ci credo più.
Il danno vero di questa sondocrazia imperante è che tutti noi – analisti, scienziati sociali, commentatori – abbiamo da tempo smesso di pensare e di indagare la società nel profondo, con tutti gli strumenti che questa “profondità” necessariamente richiede. Ci siamo impigriti intellettualmente perché c’illudevamo che la realtà ci potesse essere rivelata senza fatica e a buon prezzo dai sondaggisti e dalle loro analisi usa-e-getta. Tutto ciò che non è “sondabile” lo abbiamo nascosto sotto il tappeto, accontentandoci di compulsare dati prodotti da analisi demoscopiche che ad ogni tornata elettorale mostrano sempre di più tutti i loro limiti. Ma, nel mettere in luce i loro problemi, illuminano anche i ritardi, le incapacità, le cecità di chi dovrebbe analizzare la società e la politica e, invece, si limita alla superficie, alla punta di un iceberg che si sta trasformando enormemente sotto i nostri occhi. Se continueremo ad aspettare che siano i sondaggi(sti) a raccontarci come stanno o andranno le cose, non solo avremo sprecato del tempo, ma ancora peggio saremo venuti meno al nostro compito/dovere di spiegare come e perché sta cambiando la società.
A questo punto, è arrivato il momento di fare outing: confesso che è capitato anche a me, in passato, di seguire e organizzare analisi dei comportamenti elettorali attraverso lo strumento del sondaggio. Con risultati, peraltro, in termini sia esplicativi che predittivi, tutt’altro che disprezzabili. Ma oggi non ci credo più; anzi, oggi non mi accontento più. Se vogliamo davvero comprendere quel che succede nella società, dobbiamo ribaltare il nostro modo di fare ricerca, anticipando e non aspettando golosamente i risultati dei sondaggi, più o meno quotidiani. Insomma, fidatevi: usciamo dalla “caverna sondocratica” e torniamo a osservare la realtà coi nostri occhi e coi nostri strumenti. Magari scopriremo che non è poi così insondabile come ci hanno fin qui raccontato.
Marco Valbruzzi dice
Pasquino mi chiede di “dare i numeri”, cercando di dare sostanza alle mie argomentazioni. Tralascio quelli sui fallimentari sondaggi americani per le presidenziali del 2016, è mi limito a segnalare che, domenica scorsa, in tutta la Francia il partito di centrodestra (Les Républicains) ha organizzato delle riuscitissime elezioni primarie per scegliere il candidato alla Presidenza. Nessun sondaggio aveva previsto la vittoria, con oltre 16 punti percentuali di scarto, del conservatore Fillon. Peggio ancora, tutti i sondaggi della vigilia (con un’unica, parziale eccezione) davano per scontato che al ballottaggio ci sarebbero arrivati Juppè e l’apparentemente redivivo Sarkozy. Sappiamo com’è andata a finire: il terzo incomodo (Fillon) si è seduto comodamente al primo posto.
Così, dopo lo shock di Trump, registriamo un altro flop dei sondaggi in Francia, talmente evidente che anche Le Monde, due giorni fa, ha scritto un bell’editoriale intitolato: “Les résultats de le primaire soulignent (encore) les limites des sondages”. Sottoscrivo e rilancio. C’è qualcosa di strutturalmente sbagliato, o difettoso, nelle modalità con le quali oggi vengono svolte le indagini demoscopiche e non bastano sofisticati campionamenti, ponderazioni preventive o successive per risolvere il problema. Temo che vada ripensato radicalmente l’intero strumento del sondaggio. Nel frattempo, cioè mentre i sondaggisti rifletteranno sui loro limiti, noi pensiamo a come evitare l’abuso di uno strumento che ci ha illusi di poter trovare facili verità a buon mercato e con poca fatica. Come ha scritto un politologo fiorentino a cui non andava affatto a genio la sondocrazia, “words alone beat numbers alone”. Meglio buone parole che numeri fallaci.
laura paoletti dice
La denuncia di Valbruzzi manifesta, opportunamente, l’eccesso di ricorso allo strumento dei sondaggi, alla considerazione quantitativa più che qualitativa che indirizzerebbe piuttosto all’interpretazione dei fenomeni politici approfondendo le motivazioni della loro dinamica. Ma il costume che induce ad affidarsi ai sondaggi è duro ad essere messo in discussione.
Dimostrazione ne sia che, pur nel clamoroso fallimento delle previsioni riguardo Brexit ed elezioni americane, si continua ad appoggiarsi ai sondaggi [vietati a due settimane dal voto e trasformati nella dizione’ intenzioni di voto’ (!)]. (Mentana, tg la7, 21/11 ore 20,30) quanto al referendum italiano.
Certamente il rilievo della fallacia dei referendum è solo il primo passo. Opportuno rispondere ai quesiti di Pasquino. Vanno, poi, individuate le categorie alternative con le quali tentare di leggere più in profondità i fenomeni elettorali.
Gianfranco Pasquino dice
no, le belle parole di Valbruzzi fanno una neppure allegra promenade intorno al tema. Ma se non mettonbo qualche numero sono valutazioni campate in aria. I sondaggi hanno sbagliato: con riferimento a che cosa (numeri delle aspettative)? di quanto (numeri assoluti)? quali categorie sociali li hanno fatti sbagliare? et al.
Maurizio Griffo dice
l’articolo centra un punto più che condivisibile. Si può osservare, inoltre, che anche le classi politiche dovrebbero essere meno prone ai sondaggi e più convinte delle ragioni che motivano le loro scelte