Nel valutare la posizione cinese sull’invasione russa dell’Ucraina, occorre partire da alcuni dati formali. In occasione delle Olimpiadi di Pechino, il 4 febbraio 2022, Putin e XI Jinping fanno riferimento in una loro dichiarazione congiunta ad una «amicizia senza limiti» (amicizia, si noti, e non alleanza) tra i due paesi. Nel documento la Russia ribadisce che considera Taiwan «parte inalienabile della Cina», ma Putin non ottiene un esplicito riferimento all’Ucraina. Si afferma solo che entrambi i paesi si oppongono all’ampliamento della NATO e quindi, implicitamente, all’ingresso dell’Ucraina nell’Alleanza Atlantica.
Il 25 febbraio, subito dopo l’invasione, nel corso di una telefonata Xi invita a risolvere la crisi con il dialogo e ribadisce la tradizionale posizione cinese: rispetto della sovranità e dell’integrità territoriale di tutti i paesi.
Da ricordare, ancora, le interviste pubblicate pressoché contestualmente il 22 aprile dall’agenzia ufficiale cinese, Xinhua, sia al ministro degli esteri russo Lavrov che a quello ucraino Kuleba. Un piano di relativa equidistanza informativa, in cui emerge l’invito di Kuleba ai cinesi a valutare che «questa guerra non è in linea con gli interessi della Cina» (ricordiamo che la Cina era il principale partner commerciale dell’Ucraina). E vengono usati termini come «invasione» e «aggressione» fino a quel momento estranei alla narrazione cinese sul conflitto. Il fatto che tali dichiarazioni siano state integralmente riportate da Xinhua va preso in attenta considerazione.
Cosa si può cercare allora di desumere da quanto sopra detto ?
È verosimile che nei colloqui che hanno preceduto il comunicato del 4 febbraio Putin abbia manifestato a Xi le sue intenzioni nei riguardi dell’Ucraina. Nei termini però che riteneva allora credibili: avanzata (non guerra) lampo; entrata in Kyiv; forte adesione popolare; formazione di un governo amico. Ciò avrebbe consentito di rispettare quanto richiesto da Xi: il non ingresso dell’Ucraina nella NATO, ma anche il mantenimento della sua integrità territoriale, come avrebbe poi ribadito Xi subito dopo l’invasione.
Sotto un profilo geopolitico, Xi poteva forse ritenere che dall’esito della guerra la Cina sarebbe uscita comunque con una posizione win-win. Nel caso l’avventura russa non avesse avuto successo, nel rapporto tra i due paesi la bilancia si sarebbe spostata decisamente a favore della Cina, con la Russia nel ruolo di un indebolito junior partner. Certo questo avrebbe comportato un vantaggio tattico per l’Occidente, non tale però da compromettere le prospettive strategiche cinesi a medio termine. Torneremo su questo punto.
Ove invece la Russia fosse riuscita ad imporre il proprio Blitzkrieg, il confronto con gli USA, dopo il disastroso ritiro dall’Afghanistan, si sarebbe con più decisione orientato a favore dell’asse cino-russo, anche in relazione alla questione di Taiwan.
È accaduto qualcosa di diverso e di inaspettato. Il mancato successo di quella che voleva essere una guerra lampo ha provocato, secondo quasi tutti gli osservatori, una reazione a catena negativa per l’aggressore e quindi per il suo alleato. I fatti sono stati più volte ricordati: l’inattesa, forte resistenza dell’esercito ucraino; la mancata immediata conquista di Kyiv; la non riuscita cattura di Zelensky e il permanere quindi del governo legittimo; l’inesistente consenso popolare ed anzi la tenacia e la capacità nel resistere all’invasione; le difficoltà e le insufficienze tattiche e strategiche dell’offensiva russa; i problemi di comando, logistici e di qualità dei materiali del suo esercito; il ritardo tecnologico degli armamenti e dei sistemi di comunicazione; la brutalità esercitata anche nei confronti dei civili, resa visibile su tutti i media internazionali, che ha accresciuto la vicinanza e la solidarietà verso la resistenza ucraina.
A queste ragioni, interne allo sviluppo del conflitto sul piano militare, se ne sono aggiunte altre a livello politico globale che potrebbero rendere troppo alto per la Cina il prezzo del vantaggio acquisibile, nella partnership, da un ridimensionamento militare, economico e politico della Russia: la tenuta sostanziale a fianco dell’Ucraina del fronte occidentale, sia a livello di governi che di opinione pubblica; il ruolo propulsivo nell’adozione delle sanzioni assunto dall’Unione Europea; l’avviato processo di adesione dell’Ucraina all’Unione; il riposizionamento di alcuni stati, a cominciare da Finlandia e Svezia, nei riguardi di una NATO che secondo diversi suoi partners aveva esaurito il proprio senso di essere; la ritrovata sinergia del fronte europeo con gli Stati Uniti; il coordinamento tra Stati Uniti, Gran Bretagna e paesi non solo europei nella fornitura di sempre più efficaci aiuti economici e strumenti militari; un ruolo più assertivo della Germania e di altri paesi nell’impegno globale anche sul piano della difesa; un rinnovato interesse sui temi dell’esercito europeo; un progressivo aumento delle sanzioni che, sia pure con diversi, comprensibili livelli di accettazione da parte di alcuni pur importanti paesi e di settori dell’opinione pubblica, costituiscono non solo un immediato strumento di pressione ma anche un modello per future iniziative; una costante fuga di cervelli e di imprese tecnologiche dalla Russia (da ultimo anche le cinesi Lenovo e Xiaomi) che la indeboliscono ulteriormente; in fine, particolarmente preoccupante per la Cina, una comune attenzione per i potenziali sviluppi della vicenda da parte di importanti paesi dell’area del Pacifico, come Giappone, Corea del Sud, Australia e Nuova Zelanda. In definitiva, un mondo ben diverso da quello che aveva manifestato una sostanziale acquiescenza agli interventi russi in Siria e in Crimea, ed una imbarazzante incompetenza nella ritirata afghana.
Come si colloca allora la Cina rispetto ad un quadro difforme da quello sottostante l’incontro Putin-Xi del 4 febbraio?
Occorre in primo luogo ricordare che per la Cina questo non è un anno normale. Ad ottobre si terrà il XX Congresso del PCC, e nell’ultimo anno diversi avvenimenti hanno creato impreviste difficoltà al paese e alla sua dirigenza politica. Cominciamo da quest’ultime.
L’epidemia da COVID 19, iniziata proprio in Cina tra il 2018 e il 2019, è stata affrontata con una politica di ‘zero COVID’. Ciò ha comportato chiusura delle frontiere, test di massa e forti limitazioni alle libertà personali, accolte peraltro fino a poco tempo fa con ragionevole condivisione dalla popolazione. La situazione è precipitata negli ultimi mesi. Al momento risultano colpite dalla pandemia oltre 150 milioni di persone e il lockdown pressoché totale a Shangai, il più importante porto del paese, e in altre città comprese Guangzhou e Pechino ha provocato critiche, proteste e manifestazioni del tutto inusuali. I ritardi nella vaccinazione delle persone anziane e la relativa efficacia dei vaccino autarchico Sinovav hanno messo a dura prova la ritenuta capacità del governo nell’affrontare la situazione.
A questo si aggiunge una situazione economica in difficoltà, che dalla crescita a due cifre degli anni passati sembra attestarsi con fatica intorno ad un 5 per cento insufficiente a garantire quella «comune prosperità» invocata da Xi. Vanno poi ricordati il default di società del settore immobiliare (Evergrande ed altre), che contribuisce per circa il 30% al PIL nazionale; la stretta politica ed economica su società dell’industria tecnologica avanzata (come Alibaba), che ha intimorito investitori locali e stranieri; le difficoltà del RMB a posizionarsi come moneta di scambi internazionali; e da ultimo una gestione delle riserve finanziarie, circa 3 mila miliardi, condizionata dalla politica di governi e banche centrali, a cominciare dalla FED americana. Ancora, si sta assistendo ad una fuga di capitali dalla Cina successiva allo scoppio della guerra: tra febbraio e marzo la cifra ha raggiunto i 17 miliardi. Il 23% delle aziende straniere, in base agli ultimi dati, avrebbe poi manifestato l’intenzione di traslocare dal mercato cinese. Il tutto in un quadro che vede sempre più indebolirsi la gamba dei consumi interni, non in grado di compensare le difficoltà dei mercati globali.
Veniamo al XX Congresso del Partito del prossimo autunno. Il processo di consolidamento della leadership di Xi Jinping, che ha visto quattro anni fa l’eliminazione del limite dei due mandati per la carica di Presidente della Repubblica e un accresciuto cumulo di cariche per lo stesso Xi, prevede ad ottobre un passaggio di grande rilievo: la sua conferma per la terza volta, dopo il 2012 e il 2017, nella carica di Segretario Generale. Sarebbe un unicum nella storia post maoista, a parte il caso di Jang Zemin che non esercitò però completamente i tre mandati. Per far questo Xi ha bisogno di un quadro interno coeso, privo di tensioni sociali e di difficoltà economiche, con un partito, almeno formalmente, unito intorno alla sua persona e al suo programma politico.
La guerra in Ucraina non aiuta questo progetto. Non lo aiuta perché quello con la Russia è solo il 2% del fatturato commerciale complessivo (rispetto a quasi il 10% dell’Unione Europea); perché le sanzioni, dirette o indirette, ne limitano le capacità finanziarie, industriali e commerciali; perché, oltre alle preesistenti difficoltà finanziarie e realizzative, il conflitto mette in difficoltà la già complessa attuazione della Belt and Road Initiative; perché ha messo in crisi e forse definitivamente affossato la realizzazione della «China Central and Eastern Europe Framework», una struttura di cooperazione economica e commerciale di 16 paesi dell’Europa centro-orientale, che costituiva forse la principale via di penetrazione cinese nel continente.
Cosa può fare quindi la Cina e cosa indicano i segnali in premessa richiamati? Può sperare in una, al momento assai improbabile, sospensione delle ostilità e nell’avvio di una più o meno palese trattativa nella quale assumere un ruolo di ‘honest broker’. Per fare ciò dovrebbe aumentare i segnali, peraltro assai timidi, rivolti alla Russia sulla necessità di negoziati che puntino a mantenere comunque una sostanziale integrità territoriale ed autonomia dell’Ucraina.
È una strada difficile che al momento Putin non intende seguire, anche se alcuni ultimi segnali (come le scuse ad Israele per le dichiarazioni di Lavrov sugli ebrei) potrebbero far pensare ad un barlume di consapevolezza sul precipitare della credibilità globale della Russia derivante dalla guerra all’Ucraina.
Se questa strada non è però praticabile e la «amicizia senza fine» tra i due leaders rimarrà invariata, i rischi per Xi non saranno solo quelli economici e finanziari sul mercato interno e su quelli internazionali. Bensì, per lui più rilevanti, quelli che potrebbero emergere all’interno del partito in occasione del Congresso di ottobre. Anche perché la storia cinese degli ultimi 70 anni insegna come in tutti i Congressi, sotto una facciata di ostentata unità e continuità, gli scontri siano stati spesso assai duri e a volte sanguinosi. Ed è un rischio che Xi dovrà fare di tutto per evitare.
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