Risale a Walter Bagehot e al suo libro “The English Constitution” (1867) l’analisi che vedeva compresenti nella macchina politica che faceva funzionare quel costituzionalismo, due componenti, che poi diventavano quasi tre: una “dignified part”, cioè la rappresentazione della competizione parlamentare in dialettica con la Corona e altre istituzioni; un “efficient secret”, che era il lavoro del governo (il Cabinet), dove, al riparo dal pubblico, si faceva, diremmo con linguaggio più tardo, “amministrazione”, cioè si gestivano in concreto le necessità della sfera statale. La rappresentazione tendeva a diventare quasi una terza componente, nel momento in cui l’eco e, a volte, lo stesso contenuto dei dibattiti parlamentari diventava accessibile al pubblico grazie alla stampa. E il desiderio di mostrare la propria abilità oratoria, di assurgere a protagonisti spingeva gli uomini politici ad approfittarne.
Questa lontana analisi torna alla mente oggi quando, nella politica, tutto si è ribaltato: la “rappresentazione” diviene il tratto dominante e del vecchio “efficient secret” c’è una traccia molto flebile. Peggio: la rappresentazione esce dal parlamento, dove non ci si batte più in grandi duelli oratori, ma più che altro si fanno sceneggiate da stadio (rivedere le immagini dei dibattiti sull’ultima crisi di governo), mentre il luogo in cui la politica viene messa in scena, in verità in modo raramente “dignificato”, sono i talk show, dove, come dice la definizione stessa, la parola (inclusa la comunicazione non verbale) è spettacolo.
Porsi la domanda se il costituzionalismo moderno possa sopravvivere a questa trasformazione può suonare dettato da inclinazioni fuori luogo al catastrofismo. Eppure, se appena si presta attenzione alla fortuna di quell’ossimoro che è la “democrazia illiberale”, vediamo subito che non è proprio così. Perché in realtà l’ossimoro è possibile in quanto si è ridotta la democrazia alla sua messa in scena: se ci sono le elezioni, i parlamenti, le campagne elettorali, i partiti, c’è la democrazia. Se poi le elezioni sono in vario modo manipolate, i parlamenti hanno poteri molto scarsi e non controllano i governi, le campagne elettorali sono riservate solo a chi esprime tesi e proposte accettabili da chi comanda, i partiti nascono a loro volta da manipolazioni e non dalla libera capacità di organizzazione dei cittadini, che importa? Quello era il “liberalismo”, non la democrazia, che può vivere benissimo anche fuori di quel contesto di libertà, fraternità e uguaglianza che è retorica dei tempi passati.
Poco di nuovo sotto il sole. Già le grandi dittature di destra, i fascismi in primis, pretendevano di aver dato vita a forme “vere” di partecipazione del “popolo” al contrario di quelle che dipendevano dai “ludi cartacei” del costituzionalismo. E i regimi parasovietici, che si instaurarono dopo che la grande alleanza anti-nazista aveva vinto la seconda guerra mondiale in nome della democrazia contro la dittatura, si definivano “democrazie popolari”.
Varrebbe la pena di riflettere sulla deriva che sta interessando i sistemi costituzionali moderni. In fondo, il vecchio Aristotele potrebbe ancora insegnarci che la demagogia non è che il sistema corrotto della democrazia e da questa deriva. Lo so: filologicamente parlando, i termini usati da Aristotele non sono questi. Ma questa è la lezione che può trasmetterci.
Carmelo Vigna dice
è vero, scivoliamo verso la demagogia. E anche piuttosto in fretta. Sono d’accordo con l’analisi che è stata offerta da Pombeni, che ringrazio di cuore
Stefania Fuscagni dice
L’analisi di Pombeni è ineccepibile! Rimane da evidenziare le ragioni per cui si è giunti a questo e come se ne esce!! Forse spingendo alla ‘comunicazione’ tra singoli e gruppi che si è persa in Occidente?