Emanuele Severino non è più tra noi. È morto il 17 di gennaio scorso. Ci manca e ci mancherà la sua straordinaria genialità di pensatore.
Personalmente, ho goduto del privilegio d’averlo come uno dei miei Maestri di filosofia nei miei anni verdi (gli inizi degli anni sessanta), quando ero da poco approdato alla Cattolica di Milano. Severino era allora trentenne e ci introduceva alla lettura dei testi di Parmenide e di Aristotele (nel corso di Storia della filosofia antica) o ci presentava le vedute di Carnap o di altri pensatori del Novecento (nel corso di Storia della filosofia contemporanea).
Lezioni memorabili, anche se a ‘Contemporanea’, in particolare, eravamo a sentirlo quattro gatti. Probabilmente, il suo rigore espositivo e la sua profondità speculativa scoraggiavano gli studenti meno preparati.
Ben presto, quel giovane professore incaricato vinse un concorso a cattedra (Filosofia morale), ma venne chiamato in Cattolica come ordinario di Filosofia nella Facoltà di Magistero, mentre gli si chiedeva di tenere un corso di Filosofia morale nella Facoltà di Lettere e Filosofia.
Fu proprio in quel torno di tempo (1963/64) che Severino pubblicò sulla Rivista di Filosofia neo-scolastica un intervento che lasciò un po’ tutti sconcertati: come è noto, quell’intervento era in realtà un’esortazione potente e perentoria a… «Ritornare a Parmenide». Cioè, a trattare l’essere, anzi tutto l’essere, quindi ogni essere, come un che di eterno.
Ricordo ancora le battute affettuosamente sarcastiche di Bontadini sulla tempistica della pubblicazione. «Proprio appena avuto l’ordinariato!…», ridacchiava Bontadini; «Sarebbe stato più decoroso pubblicare un po’ prima, o un po’ dopo…».
Come che sia, il tormentone scatenato dal giovane filosofo (che era poi l’allievo prediletto proprio da Bontadini), per via delle sue proposte di ontologia difficilmente compatibili con la tradizione classica, durò qualche anno. Più d’uno dei Colleghi ‘anziani’ della Cattolica cercò una possibile compatibilità con la ‘dottrina comune’ (la filosofia classica o neoscolastica; Bontadini preferiva parlare di filosofia ‘neoclassica’).
Non solo Bontadini, ma anche Sofia Vanni Rovighi e altri ancora esortarono Severino a rivedere alcune affermazioni di punta. Ma Severino non arretrò d’un passo. Anzi, rincarò le ‘accuse’, aumentando così – nelle successive risposte ai suoi critici – le distanze con la tradizione speculativa. Sino a imputare apertamente a quella tradizione, la tradizione della metafisica, la dimenticanza dell’autentico senso dell’essere. Cioè del senso dell’eternità dell’essere. Dell’eternità di tutto l’essere.
E il divenire delle cose d’esperienza? Severino rispose dicendo che il divenire del mondo è solo apparire e scomparire, non venire all’essere e andare al niente di qualcosa. Niente diventa essere e niente diventa niente. Ciò che sembra diventar niente, in realtà, continua ad apparire altrove. Ciò che sembra venire all’essere, già era (e appariva) altrove.
Tanto per capirci, qualcosa come la ‘creazione del mondo’ da parte di un Dio (cifra ontologica centrale nella tradizione ebraico-cristiana) è da ritenere un che di impossibile. Una vera e propria assurdità… E si ammetterà che sentirlo dire e insegnare alla Cattolica di Milano, non era cosa.
Poco dopo, alla Cattolica di Milano arrivò il Sessantotto. E di colpo, in Cattolica ‘l’eretico’ Severino diventò il simbolo della ribellione studentesca (so che Mario Capanna custodisce ancora affettuosamente questi ricordi). E sì, che a Severino della ribellione studentesca importava poco o nulla – mi confidò (come mi confidò, in altre circostanze, anni dopo, che non gli importava nulla della fede Cattolica. Non era e non era mai stato un credente).
Come che sia, lo scontro con le autorità ecclesiastiche (c’era di mezzo anche il cardinale Carlo Colombo, allora discreto riferimento del Vaticano in Cattolica, perché teologo di fiducia di Paolo VI) rese necessario (tramite i buoni uffici, allora, di Vittore Branca) il trasferimento di Emanuele Severino a Venezia Ca’ Foscari, dove stava nascendo la Facoltà di Lettere e Filosofia. E pure il trasferimento (forzato) di tutti noi suoi allievi. Fummo allora dalle autorità accademiche della Cattolica bruscamente allontanati. Come degli appestati.
Per nostra fortuna, la erigenda Facoltà veneziana di Lettere e filosofia ci accolse volentieri tra le sue braccia e nel giro di pochissimo tempo fummo (i più anziani tra noi) tutti incaricati di tenere corsi accademici ufficiali. Il gruppo era numeroso: oltre al sottoscritto, erano allievi della prima ora studiosi come Luigi Ruggiu, Mario Ruggenini, Umberto Galimberti, Salvatore Natoli, Umberto Regina, Arnaldo Petterlini ecc. Poi c’era la presenza attiva di alcuni allievi di Severino un po’ più giovani di noi: Italo Sciuto, Luigi Lentini, Italo Valent, Vero Tarca e altri ancora.
Costoro, tutti provenienti dalla Cattolica (e qui taccio dei numerosi allievi, venuti dopo, propriamente ‘veneziani’) insieme ad alcuni colleghi che provenivano da Padova, formarono ben presto una sorta di ‘Scuola veneziana’ di filosofia, con Severino Direttore indiscusso dell’Istituto (cafoscarino) di Filosofia.
Severino era intanto diventato noto al largo pubblico, quasi un fenomeno mediatico: agli inizi, più per le sue posizioni ‘ereticali’ che per le sue teorie intorno al senso dell’essere, un po’ difficili da capire. Ma ben presto tutta l’Accademia filosofica italiana (e non) iniziò a rendere omaggio alla sua mente straordinaria (da Cacciari a Vattimo, da Berti a Reale ecc. ecc.).
Perché questo era Severino, qualunque riserva si intenda avanzare intorno alle sue vedute di ontologia (e anche io ne ho avanzate a tempo debito e nel debito modo): un pensatore d’eccezione, uno di quei pensatori che affascinano un’intera generazione e che costringono al confronto.
Francesco D’AGOSTINO dice
Inviterei tutti a leggere l’ultima Lettre di “Philosophie Magazine”, nella quale si dà notizia della “Mort du Philosophe Emanuele Severino” con due affermazioni, ambedue verissime e ambedue ruvide: “Son nom ne vous dit probablement rien. Pourtant, en Italie, Emanuele Severino est consideré l’un des plus grands philosophes contemporains”.
Che “la Follia” si condensi proprio in questa seconda affermazione?