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La flessibilità delle democrazie parlamentari

18 Marzo 2021 di Gianfranco Pasquino Lascia un commento

La formazione del governo Draghi ha, chi sa perché, tacitato gli affannatissimi sostenitori dei ‘governi eletti dal popolo’ e ‘usciti dalle urne’, governi che, semplicemente, non esistono nelle democrazie parlamentari.  Nel testo qui riprodotto* tiro le somme di un importantissimo tentativo di inusitata coalizione effettuato nel corso della prima fase dell’Italia repubblicana, quando il centro impediva l’alternanza e faceva le coalizioni di governo. Ho inteso mostrare che la flessibilità è la vera dote delle democrazie parlamentari. Adesso, lo sa anche Mario Draghi. Buon per lui (e, speriamo, buon per tutti noi).

[*Tratto dal paragrafo conclusivo del cap. 4 “Compromesso storico, alternativa, alternanza” in Libertà inutile. Profilo ideologico dell’Italia repubblicana, Milano, UTET, 2021, pp. 110-112]

La conclusione dell’avventura partitica, politica e ideologica di quella proposta di compromesso storico che, accuratamente maneggiata, poteva diventare una coalizione di governo dotata di potenzialità riformatrici/riformiste, fu una débâcle sotto tutti i punti di vista. Purtroppo, neppure coloro che volevano trasformare per tempo il PCI (lo spettro dei loro suggerimenti si trova nei contributi raccolti da Laura Balbo e Vittorio Foa, Lettere al PCI, Einaudi 1986) capirono che prima di tutto era necessario un confronto aspro e decisivo con la mentalità che aveva prodotto il compromesso storico.

L’incapacità di scegliere un’opzione chiaramente delineata (le incertezze nella Commissione Bozzi 1983-85 furono sconsolanti), da un lato, e il timore della discontinuità nel gruppo dirigente comunista, dall’altro, giocarono sostanzialmente a favore della coalizione, il pentapartito, che si era opportunisticamente formata all’inizio degli anni Ottanta proprio contro il PCI e che era interessata soprattutto alla sua durata e alla sua riproduzione.

Sarebbe persino sbagliato affermare che il pentapartito non seppe fare i conti con la storia poiché, tranne Craxi, tutti i politici del pentapartito vivevano alla giornata. Nessuno di loro si rese conto dell’importanza dello smantellamento del Muro di Berlino quell’entusiasmante giornata del 9 novembre 1989. In maniera preveggente, soltanto Norberto Bobbio aveva segnalato la necessità di una riflessione profonda: L’utopia capovolta («La Stampa», 9 giugno 1989): «con quali mezzi e con quali ideali [la democrazia] si dispone ad affrontare gli stessi problemi da cui era nata la sfida comunista?». Quel muro travolse qualsiasi riflessione tradizionale concernente le modalità di governo della democrazia italiana. Costituì la cartina al tornasole della scomparsa delle culture politiche dell’Italia repubblicana.

Esauritasi la fase del ‘governo di partito’, la formazione dei governi italiani ha seguito diverse, peraltro tutte comprensibili e spiegabili, modalità, nessuna delle quali, però, era fondata su un retroterra culturale adeguato che, oltre agli indispensabili numeri, offrisse una qualche prospettiva in termini di idee, ideali, ideologie (per l’Ulivo rimando a quanto ho scritto nel capitolo sulle culture politiche).

Le definizioni, spesso superficiali, per lo più mal congegnate, raramente attente alla comparazione (non «capaci di viaggiare», notò con disappunto fortemente critico Giovanni Sartori) si sono sprecate: Grande Coalizione, bipolarismo, alternanza [però, ‘alternativa’ è fondamentalmente scomparsa e di ‘vocazione maggioritaria’ non è rimasta nessuna traccia], sono tutte formule raramente sottoposte a valutazioni da esprimersi con riferimento ai contenuti e agli obiettivi. Tutti i vecchi protagonisti partitici sono da tempo morti e sepolti e i nuovi non sembrano in buona salute culturale e intellettuale. Accertatamente si sono finora dimostrati incapaci di elaborare visioni di società e di sistema politico, tranne gli spezzoni di un discorso non-partitico, non-parlamentare, talvolta non-democratico espresso dal Movimento 5 Stelle.

Non può stupire, ma neppure può rallegrare, che dopo quasi trent’anni di dibattiti sul bipolarismo e sulla sua qualità, senza adeguata prospettiva comparata, sia tornato alla ribalta, oserei dire tanto inconsistentemente quanto nostalgicamente, il ‘centro’, un presunto bisogno di centro. Di tanto in tanto, in mancanza di meglio, lo argomentano Angelo Panebianco e alcuni commentatori politici nessuno dei quali va alla ricerca di riscontri comparati (sostanzialmente inesistenti).

Molto schematicamente, soprattutto nella politica italiana post-1994, il centro è stato poco più di un piuttosto ristretto assembramento di elettori moderati per lo più non interessati a qualsivoglia elaborazione politico-ideologica, le cui oscillazioni numeriche e comportamentali non hanno migliorato la politica, ma soprattutto non hanno spinto né la destra né la sinistra a affinare i contenuti delle loro idee e proposte, la loro presentazione, il confronto con la realtà ‘effettuale’. La strategia del compromesso storico non lasciò nessuna eredità politica; di alternativa non si parlò più. Dopo il 1994, l’alternanza ha fatto alcune sue casuali comparse senza incoraggiare e accompagnarsi a nessuna elaborazione politica e istituzionale.

Sic transit

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