La XVIII Legislatura che si è chiusa sarà un giorno ricordata per i due Presidenti del Consiglio succedutesi senza legittimazione elettorale, cioè non votati ed eletti da alcuno. All’inizio (dopo le elezioni del 2018), un partito che si auto-proclama ‘non-partito’ (il M5S), con un peso rilevante e un ruolo pivotale in parlamento (non sono possibili coalizioni senza il M5S), manda in un angolo il PD e si allea con la LN, mettendo in sella uno sconosciuto (G. Conte). L’operazione è un do ut des cinico: «Tu, M. Salvini, costruisci con noi una coalizione Giallo-Verde e io, L. Di Maio, rinuncio a palazzo Chigi e lì ci metto uno che possiamo controllare insieme, ti va?». Quello risponde «Sì». Il Covid-19 – mi si perdoni l’irriverenza blasfema, ma solo ironica – dà un aiuto provvidenziale, perché si afferma la politica-tecnocrazia e, logoratosi Conte, è il turno di Draghi, messo in sella ancora con un accordo partitocratico ad excludendum (questa volta ai danni della LN) tra i pentastellati, sempre loro, e ora il PD. In questo secondo caso, la giustificazione dell’operazione è che «siamo in crisi» e non si deve più fare politica, ma amministrazione tecnica di dati e fattori, e soprattutto gestire il PNRR.
La politica italiana offre un bel po’ di spunti di riflessione a partire da una giusta considerazione del ‘metodo democratico’. L’Italia è sola tra le grandi democrazie che mostra all’occorrenza di non farsi scrupolo di selezionare leader di governo senza riconoscibilità elettorale, cioè leader che non si sono sottoposti alla misura del voto popolare. Inoltre, ci si accorge poco di come questa pratica che altera il metodo democratico sprofondi le istituzioni stesse (parlamento e governo) in una grave crisi. Infatti, il potere in democrazia risulta ‘incastonato’ in ruoli specifici, ai quali sono attribuite potestà varie. In altri termini, in democrazia il potere non è Mario Draghi (o Giuseppe Conte) ma quello strano simulacro che in Italia chiamiamo Palazzo Chigi, in Inghilterra Downing Street n. 10, in Francia l’Eliseo e così via. Ciò che resta della democrazia ‘come metodo’ non sono i Mario Draghi (o i Giuseppe Conte), i Boris Johnson o gli Emmanuel Macron ma, di volta in volta, Palazzo Chigi, Downing Street n. 10, l’Eliseo. Intendo dire: restano solo i ruoli e le potestà incastonate in quei ‘luoghi’ istituzionali.
Viene da chiedersi se dopo le elezioni del 25 settembre si possa invertire questa tendenza e ritornare alla normalità di leader di governo selezionati tra gli ‘eletti’ e di governi pienamente istituzionali. Vedremo, ma ci sono alcuni segnali che fanno temere il contrario. Intanto, una possibilità concreta che il non-eletto Draghi torni a Palazzo Chigi è offerta dalla complessa gestione del PNRR, voluta in quella forma verticistica dallo stesso Draghi con il sostegno dei partiti della sua coalizione. A destra (soprattutto FdI), dicono di voler rinegoziare il PNRR, Berlusconi si dice però contrario e così il centro-sinistra. In un ipotetico scenario di stallo post-elettorale (con Parlamento e Senato senza una chiara maggioranza), queste tensioni potrebbero portare a un governo di ‘larghe intese’ sostenuto dal centro sinistra, dai centristi di Calenda e Renzi e da una porzione della destra (FI) che rimetta in sella proprio Draghi. Questa soluzione farebbe comodo al centro sinistra, che potrebbe vantare di aver impedito la svolta a destra del Paese, sarebbe gradita a Renzi e Calenda – questi nelle settimane scorse l’ha anche suggerita – che tornerebbero in gioco, potrebbe risultare non del tutto indigesta a Berlusconi, perché metterebbe a freno Meloni e Salvini e lo riproporrebbe come una sorta di dominus della destra. Questa soluzione, tra l’altro, potrebbe incrinare anche l’asse Salvini-Meloni perché porrebbe i due di fronte all’inquietante «Che fare?», mostrarsi collaborativi con il nuovo governo semi-tecnico, e quindi convergere verso il centro, oppure isolarsi sulla destra-destra dello spettro politico.
E se invece la destra vincesse? Meloni si è detta pronta ad essere la prima donna leader di governo della storia repubblicana, ma perché ciò avvenga occorrerebbe che la sua vittoria avesse i caratteri di quella del M5S nel 2018, cioè facesse di FdI un partito imprescindibile di qualsiasi coalizione parlamentare. Anche in questo caso però, un governo di destra-destra (FdI-LN) è difficilmente immaginabile e più probabile appare una coalizione FI-FdI-LN. Può darsi che Berlusconi e Salvini possano accettare nell’immediato di sostenere un Governo Meloni, ma è chiaro che il loro ‘potenziale di coalizione e di ricatto’ sarebbe molto alto (sfilandosi in qualsiasi momento farebbero cadere il Governo Meloni). Non è escluso così che possa accadere nell’autunno del 2022 quanto accadde nella tarda primavera del 2018, cioè che dopo le elezioni si apra una lunga fase di negoziazione sulla formazione del nuovo governo e che alla fine, tra tanti veti incrociati tra Meloni, Salvini e Berlusconi, anche questa volta spunti dal cilindro un nome a sorpresa, come fu quella volta quello di Conte. Un Conte-di-destra, dunque, ma chi?
Maurizio Griffo dice
Mi permetto una osservazione. L’articolo dice: “Logoratosi Conte, è il turno di Draghi, messo in sella ancora con un accordo partitocratico ad excludendum (questa volta ai danni della LN) “. Questa affermazione non mi pare esatta, il governo Draghi era sostenuto anche dalla Lega
Maurizio Griffo dice
Mi permetto una osservazione. L’articolo dice: “Logoratosi Conte, è il turno di Draghi, messo in sella ancora con un accordo partitocratico ad excludendum (questa volta ai danni della LN) “. Questa affermazione non mi pare esatta, il govenro Draghi era sostenuto anche dalla Lega
Giuseppe IERACI dice
Ha ragione, si tratta di un refuso/errore solo mio, intendevo con l’ esclusione di FdI. Grazie per il rilievo.
G.i.