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La politica «espace d’un matin»

28 Novembre 2022 di Pino Pisicchio 1 commento

Per capire la politica e i suoi mutamenti repentini occorre forse dismettere le chiavi consegnateci dalla scienza politica e dal diritto pubblico e accettare l’idea che lo stesso nome che continuiamo a dare a quelle cose che ne raccontano gesta e contenuti, corrisponde ormai ad altro, diverso da quello che intendevamo. Prendiamo per esempio l’espressione ‘partito politico’. La nostra Costituzione ne disegna un profilo e la politologia anche moderna, da Duverger a Sartori, ne traccia caratteri salienti. Ma il partito di massa a cui fa riferimento l’art.49 Cost. e la dottrina classica hanno qualcosa a che vedere con quelle formazioni leaderistiche, dall’insediamento ideologico precario e dall’opaco rapporto con il proprio popolo? Diremmo proprio di no.

La nuova politica ci ha raccontato cose importanti in questi anni di assenza assoluta dei partiti organizzati e di presenza egemone dei cesari a capo dei partiti personali, cose che faremmo bene a ricordare a futura memoria. Cose, per esempio, riferite alle subitanee salite di consenso, senza consolidamento delle basi, che hanno portato ad altrettanto discese ardite, spesso senza risalite.

Insomma: se è tutto poggiato sul brand, sullo spot azzeccato dell’ultimo momento per conquistare non la parte razionale dell’elettore, ma solo il suo istinto, beh, lo spot poi finisce presto, soppiantato da qualche nuovo brand.

Qualche esempio? Renzi, che raccolse il Pd intorno al 25% quando nel dicembre 2013 venne eletto segretario a furor di popolo interno ed esterno al partito, celebrò il suo tripudio nel 2014 con elezioni europee che fecero schizzare il Pd al 40,81% e gli guadagnarono la fama di re Mida. Alle politiche successive, dopo aver perso il referendum sulla riforma costituzionale, lasciò il partito al minimo storico del 18,7% ed oggi, dopo la scissione, ha potuto conquistare il diritto alla rappresentanza solo grazie al sodalizio con Carlo Calenda, che gli ha consentito, col 7,7%, di superare abbondantemente lo sbarramento d’ingresso in Parlamento. Ma si potrebbe ricordare anche l’epopea dell’altro Matteo, Salvini, che raccolse la Lega al 4,03% del 2013 per trascinarla al 17,37% delle politiche del 2018 e all’apogeo assoluto del 34,26% delle europee 2019. Anche qui errori, stanchezza, come premesse per un risultato magrissimo, intorno all’otto per cento, allineato a quello del Terzo Polo. Non mettiamo nel conto i Cinque Stelle, perché potremmo solo registrare una performance tutta in ascesa, con il 25,5% del 2013 e il sorprendente 33% alla Camera nel 2018 (in Europa 21,16 nel 2014 e 17,07 nel 2019). Alle politiche del 25 settembre hanno tutti salutato come miracoloso il 16% conquistato da Conte, ma solo perché i sondaggi più generosi gli riconoscevano percentuali che oscillavano attorno ad un malinconico 10%. Si tratta, però, di un esito che, a ben vedere, racconta di una metà dei consensi del 2018 lasciata sul campo della battaglia elettorale. E del doman non v’è certezza, nessuna.

La leader di Fratelli d’Italia, invece, tutta in ascesa: dopo la fine della destra di Alleanza Nazionale attraversata dal ‘liberal’ Gianfranco Fini, Giorgia Meloni raccolse nelle politiche del 2013 l’1,96%, quasi raddoppiato alle europee del 2014 (3,67) e consolidato nelle politiche del 2018 (4,26) e nelle europee del 2019 (6,46). Certo, una performance in costante salita ma ben lontana dal 30% che viene accreditato oggi al partito dai sondaggisti e al 26% di settembre 2022.

Il punto qual è allora? C’è una base elettorale ‘storica’ delle formazioni politiche (partiti sarebbe dire troppo…) che si presentano alle elezioni e c’è una parte, più cospicua, di consensi, per così dire, ‘provvisori’, emozionali, non di appartenenza e pronti ad andar via alla prima occasione. È come se dosi di anabolizzanti fossero immesse nel corpo del partito: non si tratta, però, di uno sviluppo naturale di questo organismo. È droga elettorale. Per cui: discese ardite e risalite. In fondo lo spazio politico della Lega prima di Salvini, quella solidificata in un trentennio di presenza parlamentare, oscillava tra il sei e l’otto per cento, con due picchi del 10 per cento nel ’96 e nel 2009. Quello che ci ha messo sopra Salvini non è consolidato ma fluttuante.

Per capirci meglio facciamo l’esempio del Pd: il minimo storico del 2018, quello che segnò la fine del segretario Renzi, ha rappresentato il valore sovrapponibile al voto di settembre 2022, risultato al di sotto del quale sarà difficile che andrà a finire in futuro l’ultima formazione politica che continua ad avere qualche parentela con i partiti organizzati della prima Repubblica. Stessa considerazione andrebbe fatta per la Destra meloniana: i valori della Destra missina e poi di Alleanza nazionale, da cui origina l’esperienza di Fratelli d’Italia, hanno oscillato tra il 7/8 % del MSI e il 12/13 di An. Ecco: la fisiologia è in quel range. Sotto quei livelli Fratelli d’Italia è difficile che possa scendere: è lo zoccolo duro, il nucleo storico del sentiment di appartenenza che il ‘di più’ generato dal flusso elettorale favorevole (effetto ‘band wagon’ per la lista celebrata dai sondaggi come vincente e infedeltà elettorale nei confronti delle liste filogovernative) va ad implementare. Ma, come raccontano le performances degli altri in questi ultimi anni, quel ‘di più’ può scomparire nell’«espace d’un matin».

Ciò non significa che Georgia Meloni non possa rendere stabile il suo nuovo consenso: ma dovrà muoversi nella logica del consolidamento che si faccia partito-organizzazione e non partito-emozione temporanea. Insomma una rivoluzione.

In questo «espace» c’è la scommessa della politica senza partiti.

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Commenti

  1. Giuseppe Ieraci dice

    29 Novembre 2022 at 10:47

    Si tratta – la mia – di una boutade (ma forse il linea con il senso dell’articolo di Pisicchio): come capitato a Salvini (dal 34% al 7-8 di ora), anche Meloni perderà tutto o quasi alle prossime elezioni; il governo Meloni – segnatevi questa data – cadrà verso la fine dell’inverno 2024 (tra marzo e aprile 2024). Perché? Semplice: la durata media (periodo 1948-2022) dei governi italiani è di circa 390 gg – un anno e un mese, concediamo a Giorgia Meloni un bonus ulteriore, visto che dal 1994 in avanti (grazie anche all’effetto “distorcente” dell’unicum Berlusconi II durato una legislatura) i governi italiani tiracchiano a campare fino a 600 gg. di media.

    Rispondi

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