Il processo di riforma del terzo settore – avviato nel 2014 con le linee guida proposte dal Governo Renzi agli enti di volontariato, associazionismo pro sociale, cooperazione e impresa sociale, compiuto nel 2016 con l’iter parlamentare che ha portato alla legge delega 106, implementato con i decreti delegati nel 2017 e integrato con l’attuale fase correttiva e dispositiva aperta nel 2018 – ha avviato una stagione importante per il sociale italiano: si è aperta, in particolare la strada ad una riflessione collettiva, in cui decisori politici, esponenti del terzo settore, sistema di imprese e cittadini hanno avuto modo di discutere del futuro di questo importante sistema della società e dell’economia italiana.
Nell’impianto della riforma, alcuni dei pilastri riguardano temi di fondo, come la professionalizzazione e la crescita degli enti di terzo settore; la progressiva convergenza dei regimi giuridici e fiscali; la previsione di un controllo di natura pubblica, mediante la gestione del Registro Unico Nazionale degli Enti di Terzo Settore da parte del Ministero del Lavoro e delle Politiche sociali; il ricorso a soggetti di impresa e del credito per ottenere supporto finanziario Si tratta di molte e significative innovazioni, che tuttavia, non hanno comportato, come avrebbero dovuto, data la natura di riforma sistematica, un approfondimento sulla dimensione di autonomia, da riservare ad enti che nascono e maturano la propria azione proprio in una dimensione di sussidiarietà orizzontale.
Stretti tra il controllo pubblico sulla dimensione giuridica e fiscale e spinti nella direzione del dialogo con le istituzioni profit per garantirsi l’accesso alle risorse di esercizio, gli enti di terzo settore domandano ora, al termine del processo di riforma, dove fossero gli spazi, gli strumenti e i formati per vedere garantita la tutela dell’autonomia e di sostenere il confronto sia con lo stato controllore, sia con il mercato finanziatore.
Così, la questione della autonomia degli enti di terzo settore appare come uno dei nodi non pienamente risolti della riforma. Le parole partecipazione e rappresentanza, espressioni di questa autonomia del terzo settore, brillano per la scarsa frequenza nel testo della legge 106 del 2016 e nel decreto legislativo 117 del 2017, il Codice del terzo settore. Gli istituti e gli snodi della rappresentanza per gli enti di terzo settore previsti dalla nuova disciplina sono fondati su: 1. la sistematizzazione delle reti associative e delle reti associative nazionali; 2. la presenza di enti e di reti associative in seno al Consiglio Nazionale del Terzo Settore, dotato, prevalentemente, di funzioni consultive non vincolanti nei confronti degli organi di indirizzo politico; 3. il coinvolgimento del Forum del Terzo Settore, la principale rete associativa nazionale nella cabina di regia della riforma.
Da questa pur limitata individuazione di spazi di partecipazione e rappresentanza degli enti all’interno della governance della riforma emergono alcune questioni rilevanti. La dimensione delle reti associative (almeno 100 enti di terzo settore o al minimo 20 fondazioni di terzo settore, come le fondazioni di comunità e di partecipazione, con una presenza territoriale diffusa su 5 Regioni) e delle reti associative nazionali (500 enti di terzo settore o 100 fondazioni, con diffusione territoriale su almeno 10 regioni) appare sbilanciata verso la dimensione macro, per essere praticata da organizzazioni territoriali piccole e medie, spesso profondamente radicate con una dimensione locale o al massimo regionale. L’intenzione del legislatore di incentivare l’incremento dimensionale degli Enti di terzo settore mediante lo strumento delle reti appare chiara. Resta da valutare quanto essa sia coerente con il contesto, ben descritto dal censimento dei 336.275 enti non profit registrati da Istat nel 2015, che ci restituiscono una dimensione media di organizzazioni basate su 2 dipendenti e 16 volontari e con un budget poco superiore ai 30.000 euro all’anno.
Ugualmente, la previsione della partecipazione al Consiglio Nazionale del Terzo Settore, pur nella ristrettezza delle funzioni delineate, di soli enti e reti associative di dimensione nazionale sembra marginalizzare dalla rappresentanza le molte organizzazioni piccole e medie che non arrivano, per tempo, dimensione, capacità, ad inserirsi in reti associative.
L’effettività della presenza di tutte le componenti del terzo settore nei meccanismi di governance della riforma si pone allora in termini di deficit democratico, inteso come carenza di strumenti di rappresentanza e di sbilanciamento della partecipazione nei confronti delle sole organizzazioni maggiori. Questo quadro emergente impone di pensare a formati di coinvolgimento e rappresentanza di tutte le tipologie di enti, prevedendo livelli meso e micro di rappresentanza e partecipazione, anche grazie al ruolo esercitato dagli snodi sul territorio, come i Centri Servizio, che potrebbero diventare dei veri e propri ‘incubatori’ di partecipazione nella dimensione locale. Ricostruendo adeguatamente la pluralità – autentica ricchezza di questo comparto – delle esperienze del non profit italiano si può giungere ad una governance realmente inclusiva, in grado di comprendere e valorizzare ogni componente di questo mondo: dalla più grande e organizzata, sempre più simile per modalità gestionali alle organizzazioni profit, fino alle più operative realtà territoriali, autentici motori di sussidiarietà nel welfare locale.
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