Senza sposare le tesi più estreme di autori come Feyerabend e Rorty, si può affermare che la scienza è impegnata a sostenere l’esistenza delle entità teoriche che essa postula, cosicché le teorie scientifiche riguardano veramente ciò che vi è in natura. Tuttavia tale impegno ha dei limiti precisi, in quanto ciò che possiamo ottenere è, al massimo, una concordanza di base tra le teorie e la realtà. Ecco perché il pragmatismo più recente mira a rimpiazzare le idee convergentiste di Peirce circa il progresso scientifico con una posizione più modesta, legata ai crescenti successi nell’ambito della scienza applicata (specialmente in materia di predizione e di controllo). Questa dimensione di ‘efficacia applicativa’ è qualcosa di reale, e risulta arduo negarla se si intende mantenersi sul piano del discorso razionale.
È dunque possibile ottenere miglioramenti significativi del nostro patrimonio conoscitivo, ma deve pure essere chiaro che ogni progetto basato sulle idee di ‘perfezione’ e ‘completezza’ e, quindi, sul proposito di giungere al completamento definitivo dell’impresa scientifica, è destinato a fallire. Ciò significa opporsi a una tendenza di cui le tesi del fisico premio Nobel Steven Weinberg rappresentano un esempio significativo, vale a dire la ricerca di una «teoria finale». Indubbiamente la scienza, nel cercare di svelare la struttura della realtà, fornisce informazioni preziose intorno al mondo. Sarebbe tuttavia pericoloso dimenticare che tali informazioni hanno sempre un carattere di controvertibilità che le rende oggetto costante di discussione. Invece di abbracciare posizioni assolutiste, appare più ragionevole sostenere che la scienza si sforza davvero di giungere ad una comprensione piena di ‘ciò che vi è’, sottolineando al contempo che le sue affermazioni hanno, dal punto di vista ontologico, valenza provvisoria. Si noti che questa visione pragmatica dell’impresa scientifica consente anche di evitare l’azzardo strumentalista. Segue infatti da quanto ho appena detto che le entità teoriche della scienza vengono postulate a fini essenzialmente pratici, e cioè per supportare la spiegazione causale di fenomeni ed eventi percepibili dai nostri sensi, ma ciò non significa che esse siano del tutto sganciate dal piano del reale.
Molti studiosi hanno affermato a questo riguardo che la inosservabilità delle entità teoriche della scienza è dovuta a fattori contingenti, i quali a loro volta vanno fatti risalire sia alla naura degli enti che sfuggono all’osservazione sia alle caratteristiche dei nostri meccanismi percettivi. Ciò è dimostrato dal fatto che entità che non erano osservabili in un certo periodo storico lo sono diventate in seguito, grazie alla nostra capacità di estendere artificialmente le facoltà percettive mediante strumenti tecnologicamente avanzati. Ne consegue che ogni demarcazione netta tra entità osservabili e inosservabili non è significativa dal punto di vista ontologico: se rifiutiamo la prospettiva realista per quanto concerne gli inosservabili, anche il realismo in generale deve essere abbandonato. Percorrendo sino in fondo questo sentiero, occorre affermare che alcune entità scientifiche sono inosservabili solo sul piano contingente, e che la loro inosservabilità (dovuta, ad esempio, alle ridotte dimensioni) presenta le stesse, risolvibili difficoltà che si incontrano quando si prendono in considerazione i corpi celesti (in quest’ultimo caso, è la collocazione spaziale a porre problemi).
Le concezioni strumentaliste della scienza trascurano tuttavia il fatto – davvero essenziale – che per lo scienziato la predizione e il controllo hanno il compito di verificare l’adeguatezza delle nostre teorizzazioni circa la realtà oggettiva; non sono dunque le teorie a dipendere dalla predizione e dal controllo, ma viceversa. In altri termini, è certamente corretto sottolineare la fallibilità e la correggibilità dell’impresa scientifica, ma ciò non dovrebbe indurre a negare la possibilità di pronunciare asserzioni esistenziali e descrittive sul ‘mondo reale’ all’interno della scienza.
Simili asserzioni sono legittime, a patto che si rammenti, come ho notato in precedenza, il loro carattere provvisorio e ipotetico. Tutto ciò che possiamo dire è che se la scienza dei nostri giorni è corretta, allora le cosiddette entità teoriche esistono e possiedono proprio le caratteristiche che essa ipotizza. Nessuna scienza potrebbe svilupparsi prescindendo da quest’atteggiamento realista di fondo, giacché il suo scopo precipuo è fornire un quadro della realtà ontologicamente fondato. Nel prendere atto di tale stato di cose, il filosofo della scienza deve riconoscere, da un lato, il ruolo descrittivo ed esplicativo che la scienza si propone di svolgere, mentre dall’altro egli deve pure essere cosciente che la scienza stessa è destinata a essere imperfetta e fallibile.
È anche importante notare che solitamente gli strumentalisti adottano un empirismo assai ristretto. Si tratta tuttavia di un empirismo piuttosto strano poiché, in termini tradizionali, questa dottrina sostiene che ogni tipo di conoscenza descrittiva del mondo deve essere basata sull’esperienza. Dal momento che gli strumentalisti affermano, invece, che l’esperienza non può fornire alcuna conoscenza descrittiva del mondo reale (extra-fenomenico), la loro posizione può a buon diritto essere classificata come un forma di anti-empirismo. Ciò rammenta da vicino una situazione che si ritrova nella tradizione analitica. Molti rappresentanti della svolta linguistica hanno infatti aderito a un genere ‘forte’ di empirismo mentre, in realtà, un’attenta analisi delle loro tesi indurrebbe piuttosto a classificarli come ‘idealisti linguistici’.
Poiché ho da un lato contestato la validità dello strumentalismo, e dall’altro affermato che è appropriato parlare di asserzioni esistenziali e descrittive all’interno della scienza, occorre a questo punto chiedersi quale forma di realismo si possa sostenere partendo da tali premesse. Se qualcuno obietta che, al fine di fornire al realismo solide basi, è necessario ricorrere a una realtà totalmente indipendente dal pensiero (e dal linguaggio), si può rispondere nei seguenti termini. Che cosa possiamo pensare circa questa realtà, e come possiamo dire in che modo essa si manifesta? Anche per immaginare un mondo del tutto privo della presenza umana, infatti, dobbiamo pur sempre fare ricorso ai concetti. E – si noti – la concettualizzazione non è un fattore di cui possiamo tranquillamente fare a meno, bensì una componente essenziale della nostra natura. Circa un possibile mondo indipendente dalla mente e dal pensiero possiamo dire che esso esiste, senza d’altro canto essere in grado di specificare che cosa sia. Situazione non certo nuova in ambito scientifico, dove sappiamo che ci sono errori nella scienza attuale, senza saper specificare quali essi siano.
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