«Immaginiamo dei marinai che, in mare aperto, stiano modificando la loro goffa imbarcazione da una forma circolare a una più affusolata. Per trasformare lo scafo della loro nave essi fanno uso di travi alla deriva assieme a travi della vecchia struttura. Ma non possono mettere la nave in bacino per ricostruirla da capo. Durante il loro lavoro stanno sulla vecchia struttura e lottano contro violenti fortunali e onde tempestose. Questo è il destino degli scienziati».
La metafora ha grande potere suggestivo ed è di Otto Neurath, economista e sociologo che fu, negli anni ’20 del secolo scorso, uno dei fondatori del Circolo di Vienna. Tale Circolo fu la fucina del neopositivismo logico, e cioè di quella corrente di pensiero che considera la riflessione sul metodo scientifico il compito principale – per non dire l’unico – della filosofia.
Partendo dal presupposto che la scienza, grazie agli enormi successi conseguiti negli ultimi secoli, è ormai diventata il paradigma del sapere, i neopositivisti rovesciarono i termini del dibattito filosofico tradizionale tacciando di ‘insensatezza’ tutti gli asserti che non sono, in forma immediata o mediata, riconducibili all’ambito delle scienze empiriche e naturali.
Non a caso il loro Manifesto, pubblicato nel 1929, si intitola La concezione scientifica del mondo. Sfogliando le sue pagine, leggiamo che il chiarimento delle questioni filosofiche tradizionali conduce, in parte, a smascherarle quali pseudo-problemi, e in parte a convertirle in questioni empiriche soggette, quindi, al giudizio della scienza sperimentale. Esiste, insomma, un confine preciso tra due tipi di asserzioni. All’uno appartengono gli asserti formulati nella scienza empirica: il loro senso si può determinare mediante l’analisi logica. Gli altri si rivelano del tutto privi di significato.
Neurath, pur essendo uno dei fondatori del movimento, rappresenta anche l’esempio più significativo di trasgressione della ‘ortodossia’ dell’empirismo logico. Proveniva, infatti, a differenza degli altri membri del Circolo (tutti matematici o fisici, oltreché filosofi) dal filone delle scienze storico-sociali. Il fatto non è di poco conto. Il neopositivismo si caratterizza, in primo luogo, per il tentativo di ‘ridurre’ ogni modello di spiegazione a quello vigente nelle scienze empirico-naturali, e in particolare nella fisica. Di conseguenza, tutte le altre discipline, e soprattutto quelle storico-sociali, a esso debbono uniformarsi se davvero intendono porsi come scienze a tutti gli effetti.
È allora chiaro che nessuna eccezione è consentita. Esiste ‘il’ metodo scientifico fornito in primo luogo dalla fisica, e chiunque si collochi al di fuori di esso si trova ipso facto proiettato nel tempestoso oceano dell’improvvisazione e del non senso.
Il fatto è che Neurath, pur facendo parte a pieno titolo del movimento, riuscì ben presto a intravedere con chiarezza tutti i presupposti che avrebbero poi condotto alla sua crisi. Si rese conto, infatti, che i problemi epistemologici delle scienze naturali e di quelle sociali devono sì essere inquadrati in una prospettiva unitaria che faccia ampio ricorso a tesi di carattere convenzionale e tralasci qualsiasi tentazione di assolutezza.
La scienza, adottando un simile punto di vista, è certamente una costruzione unitaria, ma non nel senso voluto dal Manifesto del Circolo di Vienna. La riduzione del metodo scientifico a quello della fisica non può fornire risultati positivi perché trascura del tutto la dimensione storico-sociologica dell’impresa scientifica.
La prospettiva neopositivista va quindi rovesciata, concedendo alle discipline storico-sociali pari dignità epistemologica. Nessuna ricostruzione razionale e nessuna codificazione del metodo scientifico può prescindere da un approccio semantico, storico e sociologico ai comportamenti, ai linguaggi, ai valori condivisi, alle procedure adottate e alle decisioni metodologiche delle comunità scientifiche.
Si tratta di una geniale anticipazione degli ultimi sviluppi dell’epistemologia contemporanea. Illuminanti risultano, a tale proposito, queste sue parole: «Gli scienziati sociali considerano talora la fisica come un Eldorado della esattezza e della univocità e suppongono che, nell’ambito di queste discipline, qualsiasi tipo di contraddizione risulti fatale per le ipotesi teoriche stesse. Essi pensano che ci sia una differenza essenziale fra le diverse discipline dal punto di vista della certezza dei loro fondamenti e dei loro risultati; non si rendono conto non solo che imprecisione, insufficiente informazione e contraddizioni sono presenti anche all’interno delle scienze naturali, ma che, in taluni casi, la previsione è meno agevole proprio nell’ambito di quest’ultime. Può accadere, ad esempio, che sia più difficile prevedere quale sarà l’andamento meteorologico del mese successivo che non il risultato di elezioni politiche che si svolgeranno nello stesso periodo».
Se si considera che, da sempre, gli scienziati sociali sono afflitti da una sorta di complesso di inferiorità nei confronti dei loro colleghi che operano nel campo delle scienze naturali, è chiaro che questa prospettiva offre validi spunti per ripensare in toto lo sviluppo dell’epistemologia.
Certo, è difficile per chi sia abituato a considerare la fisica come il paradiso della metodologia accettare questo punto di vista. Eppure, anch’essa è stata costretta a rinunciare a ogni atemporale ‘extra-territorialità’ rispetto all’esperienza storica dell’homo sapiens, all’evoluzione delle culture, all’interazione con l’ambiente. Anch’essa naviga in mare aperto e, come accennato nella bella metafora citata all’inizio, ha bisogno di continue riparazioni. Il regno della sicurezza e della verità sfuma sempre più all’orizzonte.
In conclusione, occorre sempre rammentare che lo spirito scientifico è per sua natura critico e anti-dogmatico. Chi trascura questo fatto dimostra di non aver capito che è preferibile combattere contro violenti fortunali e onde tempestose piuttosto che affondare con il proprio carico di presunte certezze.
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