I titoli dei giornali che hanno comunicato la sentenza della Corte Costituzionale sull’aiuto al suicidio, nella varietà delle loro intonazioni, dalle più sobrie alle più apocalittiche, ne hanno sottolineato tuttavia coralmente il carattere ‘storico’. In effetti, la sentenza può considerarsi storica in quanto parte del lungo cammino volto ad assicurare il rispetto della dignità della persona. I casi recenti che hanno rotto la congiura del silenzio sulla morte, costringendoci a parlare di che cosa è – e sarà sempre più – lo stato terminale della vita, il tratto estremo del nostro passaggio umano in società tecnologiche ad alta medicalizzazione, ci hanno fatto comprendere le mutue implicazioni tra la sfera della politica e quella della vita, tra polis e bios. Da qui una serie di domande di una complessità straordinaria. Chi rivendica il diritto di morire con dignità dev’essere costretto a vivere suo malgrado? Fino a che punto devono valere le richieste e le aspettative del mondo nei confronti del singolo individuo? Quali sono i limiti dell’ingerenza del sociale nella più intima sfera di libertà del soggetto? Ma soprattutto esiste un’antinomia insolubile tra autonomia e solidarietà? La lezione di John Stuart Mill si rivela, ancora una volta, fondamentale. Credere nella società aperta significa che non ci consideriamo i supremi giudici dei valori di un altro, che non ci sentiamo autorizzati a impedirgli scopi che disapproviamo a condizione, naturalmente, che non invada il campo, egualmente protetto, dei diritti e dei valori altrui.
All’interno di una bioetica liberale dovrebbe essere garantito sia il diritto di chi ritiene che la vita umana sia sacra e inviolabile, in quanto dono di Dio, e che all’uomo non sia consentito disporne, sia il diritto di chi, considerando la propria vita un bene a sua disposizione, intende esercitare il suo diritto di autodeterminazione. Aggiungendo, tuttavia, – e si tratta di un rilievo della massima importanza – che l’autonomia non esclude in alcun modo quel ‘prendersi cura’ che comporta attenzione premurosa per l’altro, per le sue esigenze, i suoi bisogni e che testimonia una solidarietà umana fondamentale. A questa visione mi sembra ispirarsi la sentenza della Consulta. Che ha deciso sul suicidio assistito con una pronuncia di illegittimità che riconosce la non punibilità della condotta di chi assiste – con una netta distinzione tra istigazione e assistenza – ma ponendo molti limiti. Occorre infatti che la persona sia affetta da una patologia irreversibile, fonte di sofferenze psichiche che ritiene intollerabili, che sia tenuta in vita grazie a mezzi di trattamenti di sostegno vitale e resti capace di prendere decisioni libere e consapevoli. Rispetto al quadro di garanzie prefigurate nel recentissimo documento del Comitato Nazionale per la Bioetica (Riflessioni bioetiche sul suicidio medicalmente assistito: http://bioetica.governo.it/it/documenti/pareri-e-risposte/riflessioni-bioetiche-sul-suicidio-medicalmente-assistito/), si sono poste ulteriori condizioni proprio per evitare quel ‘pendio scivoloso’ tanto temuto e più volte evocato, ovvero il rischio di abusi ai danni di persone particolarmente vulnerabili. Condizioni tutte, a mio parere, di grande rilievo: dal richiamo al rispetto delle modalità previste dal consenso informato – che auspica una vera ‘alleanza terapeutica’ tra curante e curato – alla riaffermata necessità di cure palliative, come risposta efficace di sollievo alle sofferenze, alla possibilità di una sedazione profonda continua, eticamente e giuridicamente lecita, che garantisca una morte senza dolore, fino al necessario parere del comitato etico territorialmente competente. Qualcuno ha parlato di un eccesso di vincoli. In effetti, si tratta di condizioni giustamente severe che, non consentendo di parlare, in alcun modo, di una liberalizzazione senza limiti, dovrebbero rassicurare quanti hanno parlato, a sproposito, di un «suicidio di stato imposto dalla legge». Saremo tutti più liberi, certo, ma la nostra sarà una libertà molto vigilata…
La Corte inoltre – ed è questo un secondo elemento degno di interesse – ha fatto ricorso il più possibile alla legislazione esistente, applicandola al caso del dj Fabo, per analogia o logica conseguenza, al fine di evidenziare non una rottura ma una sostanziale continuità con le leggi relative al fine vita. Pur nella diversità delle situazioni – le dichiarazioni anticipate di trattamento fanno riferimento a una decisione sul fine vita che riguarderà un futuro in cui non si sarà più competenti, mentre qui siamo in presenza di una decisione drammaticamente attuale di una persona pienamente competente – si intende sottolineare che non si apre verso l’eutanasia come da più parti temuto, ma si prosegue in un solco in qualche misura già tracciato, quello di una legislazione sul fine vita che privilegi soluzioni giuridiche razionali rispetto a dispute meramente ideologiche. Una decisione, dunque, ragionevolmente equilibrata in attesa che il Parlamento si pronunci.
(Luisella Battaglia è componente del Comitato Nazionale per la Bioetica)
Dino Cofrancesco dice
Giustissimo caro Maurizio ma la legge dello Stato si è pronunciata e in base a quella legge Cappato sarebbe atteso dalle patrie galere.
Maurizio Griffo dice
Forse è meglio che il parlamento non si pronunci