Il 1971 fu l’anno dell’abbandono da parte del dollaro di un rapporto fisso con l’oro; persa quest’àncora per i valori nominali, sui mercati internazionali delle materie prime i prezzi presero un abbrivio via via più crescente, innescato volta per volta da fenomeni la cui aneddotica si è moltiplicata nel tempo e con la guerra del Kippur nel settembre 1973 trovò il suo culmine nella moltiplicazione per cinque del prezzo del petrolio, dopo un ventennio di prezzo stabile a due dollari al barile.
Si trattò di uno shock da offerta negativo per tutti i paesi importatori di petrolio: per importare le stesse quantità di petrolio era necessario esportare più beni e servizi sottraendoli quindi al soddisfacimento della domanda interna (tassa da petrolio). La rincorsa a scaricarsi reciprocamente le rinunce a un po’ del ritmo di miglioramento delle condizioni di vita portò i tassi di inflazione a livelli inconsueti in tempi di pace nei paesi avanzati: il 25% nel Regno Unito, il 20/22% in Italia, il 13/14% negli Stati Uniti, ecc.
Questa rincorsa fu favorita dalla indicizzazione dei salari ai prezzi, che in Italia per redditi medi fu portata nell’intorno del 100%. La politica economica fu disorientata da un tale shock e entrambe le politiche monetaria e fiscale favorirono la compensazione delle perdite di reddito reale, nel tentativo di difendere i livelli di occupazione. Oltre a interventi di razionamento delle quantità di consumi di petrolio (in Italia, le domeniche a piedi, i limiti al riscaldamento degli ambienti, ecc.), le politiche di bilancio cominciarono a presentare disavanzi crescenti mentre le politiche monetarie finanziavano tali disavanzi. L’inflazione crescente che ne conseguì contenne l’aumento del rapporto debito pubblico/Pil.
Le piccole economie aperte (Italia, UK), con tassi di cambio diventati flessibili, videro le loro monete deprezzarsi significativamente e le riserve internazionali ridursi nei tentativi di contenere il deprezzamento. Per queste economie le politiche economiche deviarono dalla cautela messa in atto negli altri paesi e l’inflazione fu quindi più elevata e il finanziamento dei disavanzi esteri divenne un problema. Furono dirottati a quel fine i cosiddetti petrodollari, ovvero i surplus della bilancia estera dei paesi esportatori di petrolio si riversarono nei paesi importatori per sostenere la loro domanda. In particolare, il disavanzo estero italiano contò anche sugli aiuti del FMI e della Bundesbank, la quale richiese in garanzia parte dell’oro di Banca d’Italia e, comunque, una garanzia più importante venne dalla svolta nella politica economica (1977) rivolta non più solo a interventi amministrativi sui movimenti dei capitali e dei prezzi e in parte di controllo della domanda, ma soprattutto ad agire sull’offerta di beni tradeable con una forte fiscalizzazione degli oneri sociali. A sua volta la politica monetaria e di gestione del debito si dotarono di strumenti più efficaci di controllo delle grandezze monetarie (credito totale interno) e di intervento sui mercati monetari (Buoni ordinari del Tesoro a brevissimo termine, tre mesi, e parte delle retribuzioni dei dipendenti pubblici pagati in BOT). Di lì a poco, nel Regno Unito, dopo il cosiddetto winter of discontent, la svolta fu ancora più radicale con l’elezione di Margaret Thatcher.
Quando la situazione sembrava avviarsi verso il miglioramento, la rivoluzione in Iran, innescò il secondo shock petrolifero del 1979 che moltiplicò per quattro il prezzo del petrolio portandolo a 40 dollari al barile e il diffondersi della aspettativa del permanere di un tasso di inflazione a due cifre cominciò a preoccupare le Banche Centrali che con tempi diversi cominciarono molto gradualmente a spingere verso l’alto i tassi di interesse nominali, che comunque in termini reali rimanevano decisamente negativi. Solamente dopo la svolta radicale della politica economica inglese e della politica monetaria americana nell’ottobre del 1979, seguita in Italia nel giugno del 1981 dal cosiddetto divorzio Banca d’Italia-Tesoro, in tutti i paesi avanzati i tassi di interesse tornarono positivi in termini reali. La recessione che ne seguì ebbe diffusione mondiale e sancì definitivamente la fine della golden age del Dopoguerra, ovvero, la fine della fase di aspettative di benessere rapidamente crescente. Il prezzo del petrolio qualche anno dopo crollò e per i successivi quarant’anni circa, la discesa dei tassi di interesse e dell’inflazione fu propiziata dalla nuova àncora per i prezzi costituita dalla indipendenza delle Banche Centrali (BC) e dalla loro credibilità.
Quale lezione trarre dalla esperienza di quegli anni? Innanzitutto le dimensioni dello shock sono minori: raddoppio dei prezzi del petrolio e moltiplicazione per quattro di quelli del gas; in secondo luogo, non vi sono problemi di finanziamento di disavanzi esteri: le bilance dei pagamenti correnti europee sono complessivamente attive e quella americana è in equilibrio dal punto di vista energetico; in terzo luogo, le economie sono meno indicizzate e gli interventi di politica di bilancio sono finalizzati a sostenere i redditi medio-bassi per evitare che parte delle richieste di difesa del potere d’acquisto si scarichi sulle imprese riducendo il rischio di una spirale prezzi-salari-prezzi; da ultimo, le politiche monetarie sono consapevoli, vista l’esperienza di allora, che devono evitare che le aspettative di inflazione futura perdano l’àncora della credibilità e indipendenza delle BC e quindi accettano il rischio di un forte rallentamento della crescita macroeconomica a breve rendendo meno negativi in termini reali i tassi di interesse, pur di evitare una forte recessione cui sarebbero costrette portando i tassi di interesse a un livello maggiore del tasso di inflazione se rinviassero ancora per molto tempo di intervenire.
Purtroppo, c’è un Erdogan, che pensa che l’inflazione si governa riducendo i tassi di interesse, nascosto nel cuore di ogni populista e la strategia indicata potrebbe essere messa a repentaglio da esiti elettorali futuri, che minino la indipendenza e credibilità delle BC.
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