Ora che sgomento e indignazione, per i 43 morti nel crollo del ponte Morandi a Genova il 14 agosto scorso, sono diminuiti di intensità emotiva, è possibile sollevare il velo su un aspetto finora trascurato dall’ampio dibattito pubblico che ne è seguito. Sono tante e di varia rilevanza le problematiche che la tragedia di Genova suscita. Ne accenno solo alcune. Qual è il modello adeguato di concessione autostradale da adottare per il futuro: la gestione pubblica diretta o la regolamentazione severa del monopolista naturale privato? (Se si leggono con attenzione gli articoli 2, 3 e 7 dell’Atto Aggiuntivo alla Convenzione unica sottoscritta il 12 ottobre 2007 tra MIT e ASPI (Autostrade per l’Italia) si trae che ai gestori venne concessa, di fatto, una delega in bianco; dunque, tutt’altro che severa). Una seconda questione è: mantenere in capo al MIT le funzioni di controllo, come finora è stato, oppure attribuire queste ad una Autorità indipendente per le infrastrutture autostradali dotata dei necessari poteri di enforcement? Ancora: la gestione di un servizio pubblico come una autostrada è opportuno che venga affidata ad un’impresa for profit, quando si consideri che in tale ambito i ricavi provengono dai pedaggi riscossi al casello, mentre i costi sono rappresentati dalle spese di manutenzione, ordinaria e straordinaria? Si presti attenzione: se la funzione obiettivo del gestore è la massimizzazione dello ‘shareholder value’, cioè del profitto che è la differenza tra ricavi e costi, e se, come è risaputo, l’espansione dei ricavi conosce in tale ramo di attività un tetto superiore, è evidente che il conseguimento dell’obiettivo da parte del gestore for profit passa attraverso la riduzione dei costi. È bensì vero – si dirà – che il regolatore pubblico può imporre vincoli stringenti nel contratto di concessione e vigilare poi per assicurarne il rispetto. Ma ecco la contraddizione pragmatica: se i funzionari statali sono ritenuti meno efficienti dei privati nella gestione (ragion per cui viene proposta la privatizzazione) come possono diventare efficienti nel controllo, considerato che quest’ultimo è assai più complesso e irto di difficoltà della gestione? (Ricordo, di sfuggita, che quello di Genova è il decimo caso di crollo di un ponte in dieci anni!). E così via.
In questa nota, il punto che intendo sollevare è il seguente. L’interpretazione tradizionale della responsabilità identifica questa con il dare conto, rendere ragione (accountability) di ciò che un soggetto, autonomo e libero, fa. Tale nozione di responsabilità come imputabilità postula dunque la capacità di un agente di essere causa dei suoi atti e dunque di essere tenuto a ‘pagare’ per le conseguenze negative che ne derivano. Tuttavia, nelle condizioni odierne, tale nozione è troppo debole per far fronte alle nuove sfide. La rapidità del cambiamento, infatti, costringe a prendere decisioni di cui non siamo mai in grado di calcolare tutte le conseguenze, in tempo reale. La capacità di risposta non può essere perciò solo riferita alle circostanze presenti, ma deve includere quelle dimensioni temporali che assicurino una continuità della risposta stessa. Ecco perché la responsabilità non può esaurirsi nella sola imputabilità. Occorre arrivare alla responsabilità come prendersi cura, farsi carico indipendentemente dai ruoli ricoperti o dalle mansioni fissate in un protocollo. Ricordiamoci del «I care» di don Milani. Nel caso di cui si discute, il gestore può certamente sostenere che vi sono stati ritardi nelle autorizzazioni ministeriali o addirittura assenza di risposte, ma ciò non esonera affatto dalla responsabilità se questa è concepita come farsi carico. Si sarebbero dovuti chiudere gli accessi ai caselli (rinunciando di conseguenza ad una certa quota di ricavi) in omaggio al principio di precauzione.
A cosa si deve la difficoltà di far accettare oggi dagli agenti economici la nozione forte di responsabilità? Alla crescente diffusione del fenomeno della adiaforizzazione dell’organizzazione sociale di mercato. Da ciò discende la preoccupante deresponsabilizzazione dei soggetti economici. La forma più nota in cui si manifesta tale fenomeno è quella dell’allungamento della distanza tra l’azione e le conseguenze derivanti. Suddividendo il processo lavorativo in una miriade di sottoprocessi, si riesce a nascondere a chi vi si dedica la rilevanza morale di ciò che va facendo. Il singolo non solo non si sente all’altezza del quantum di conoscenza incorporata nella catena di comando, ma soprattutto non si ritiene responsabile di quanto è generato dall’intero ciclo entro cui viene a collocarsi la sua azione: egli deve solo preoccuparsi di svolgere bene il compito che gli è stato assegnato. L’azione diventa così adiaforica e come tale valutata rispetto a parametri tecnici, non morali. (In origine, «adiaphoron» significava un atto dichiarato indifferente dalla Chiesa, un atto cioè né buono, né cattivo). Una volta resa adiaforica, l’azione non è più suscettibile del giudizio di responsabilità. Infatti, una volta che all’agente venga impedito di anticipare gli effetti ultimi della propria azione, questi non ‘vede’ le conseguenze degli impegni presi e quindi neppure si pone il problema della responsabilità. Anche se sa di essere parte di una lunga catena causale, il soggetto viene istruito che la sua azione è un atto moralmente ‘neutro’, che in quanto tale non dà luogo ad alcun giudizio di responsabilità. L’organizzazione diviene così una macchina che vale a rassicurare chi ne è parte che la responsabilità non appartiene a nessuno, perché l’azione ‘qui’, in un certo comparto dell’organizzazione, e l’effetto ‘là’, in altra parte dell’organizzazione, sono sufficientemente distanziati tra loro da anestetizzare il senso di colpa. Un altro processo, complementare a quello di cui sopra, e che pure vale ad accrescere il tasso di deresponsabilizzazione nelle organizzazioni è quello della concentrazione del potere senza centralizzazione dello stesso. È questo processo a favorire il comportamento burocratizzato nelle organizzazioni in genere e nelle grandi imprese in particolare. Come magistralmente ci ha insegnato Max Weber con la sua metafora della ‘gabbia di acciaio’, la burocrazia, sia politica sia economica, è il più potente ed efficace strumento per contrastare la diffusione della cultura della responsabilità.
Il caso di Genova conferma appieno come si attua nella pratica il fenomeno della diluizione della responsabilità. Frequenti le espressioni del tipo: «non potevo saperlo»; «non era di mia competenza»; «devo sentire prima in azienda gli addetti»; «non è colpa mia se altri non hanno fatto ciò che devono fare»; ecc. Si badi che la legge 231 del 2001 sulla responsabilità penale delle aziende ha fatto sorgere una quantità di organi di vigilanza tale che la responsabilità del top management è stata praticamente azzerata, al punto che questo ha il diritto di non sapere quello che fanno i livelli inferiori. Come si legge nell’articolo di M. Mensurati e F. Tonacci («Repubblica», 15 ottobre 2018), alla domanda del Presidente della Commissione d’inchiesta del Ministero delle Infrastrutture di conoscere i risultati della indagine interna svolta da ASPI, il CEO di quest’ultima, in data 13 settembre, risponde che «le cause di questo disastro a noi non sono note… Noi non abbiamo accesso ai luoghi, non abbiamo la capacità di farci una nostra opinione e non accetto che ci sia una predefinita dichiarazione di responsabilità dell’azienda su quanto è successo» (Sic!). Più inquietante la risposta del Direttore delle Operazioni Centrali che presentò nell’ottobre 2017 il progetto di ristrutturazione del ponte Morandi al C.d.A. di ASPI. Alla domanda: «Lei sa perché il progetto definitivo non è mai stato portato all’attenzione della Direzione Generale del Ministero?» La risposta è stata: «Non lo so». E richiesto di dire se aveva mai letto il rapporto di validazione del progetto esecutivo, risponde: «Non l’ho letto». D’altro canto, Bruno Santoro, alto dirigente delle Direzione Generale per la vigilanza sulle Concessionarie, alla domanda del perché un manufatto così problematico non avesse ricevuto il benché minimo intervento di manutenzione strutturale negli ultimi 25 anni, risponde: «Sono totalmente d’accordo con lei e trovo, come tecnico e cittadino utente delle autostrade, queste situazioni incredibili. Che molte cose non abbiano funzionato nel rapporto tra Ministero e concessionaria è evidentissimo». E poco più avanti: «Se fosse stato affidato a me il compito di esaminare quel progetto [di retrofitting volto a rinforzare le pile 9 e 10], prima della approvazione avrei certamente segnalato alla Direzione Generale i problemi strutturali che emergevano con chiarezza dalla relazione dei progettisti… Io prima del crollo non avevo avuto la minima conoscenza del contenuto di quel progetto». (G. Filotto, M. Preve, «Repubblica», 21 ottobre 2018). Eppure, lo stesso ing. Morandi nel 1981 aveva scritto che «La struttura ha subito un deterioramento più rapido del previsto. Gli stralli del pilone 9 presentano infrazioni trasversali che ne pregiudicano la stabilità e la sicurezza». Un’ultima (per mancanza di spazio) citazione. Nell’intervista di Giusi Fasano al prof. Carmelo Gentile del Politecnico di Milano, firmatario dello studio sugli stralli del ponte Commissionato da SPEA (la società ingegneristica di Autostrade), alla domanda: «Si rimprovera qualcosa?», risponde: «Mi sono chiesto: avrei potuto fare qualcosa che non ho fatto? Ma non avevo a disposizione i documenti dei commissari per trarre conclusioni sulla sicurezza. Con il mio studio potevo osservare soltanto un pezzettino dell’insieme». («Corriere della Sera», 3 ottobre 2018; corsivo aggiunto).
Devo terminare. Qual è il messaggio finale da trarre dalla triste vicenda? Che l’adiaforizzazione dell’azione umana è ciò di cui ha bisogno il mercato per funzionare come modello di organizzazione sociale che non ha necessità di sottoporsi al giudizio morale, perché questioni riguardanti le dicotomie umano/disumano, altruismo/opportunismo, empatia/indifferenza, lecito/illecito sono considerate non questioni. Con il che è il concetto stesso di responsabilità che perde salienza, oltre che ogni cogenza. Ebbene, questa realtà dell’organizzazione di mercato se poteva essere in qualche misura tollerata fino all’avvento della rivoluzione delle tecnologie convergenti, quando il bene e il male delle azioni erano ‘vicini’ all’atto stesso, oggi non può più esserlo. Il non sentirsi responsabili dell’intero processo è solamente conferma della complessità del vivere, dell’enorme sproporzione tra le possibilità tecniche e la nostra capacità assimilativa, o invece è conseguenza di un meccanismo che non contempla come necessaria la responsabilità individuale, anzi si irrobustisce sempre più quanto più la nega? Come si può trarre dal caso qui preso in esame, la risposta corretta è la seconda: sono le organizzazioni (soprattutto quelle di impresa) adiaforiche a tenere in vita strutture sociali che tendono a scoraggiare o addirittura a dispensare gli individui dal sentirsi in qualche modo responsabili di quel che fanno.
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