Nel corso degli anni tutti noi ci imbattiamo in avvenimenti che ci lasciano attoniti per la violenza incondizionata, irrazionale e talvolta connotata da mostruosità che essi manifestano. Rimaniamo quasi soggiogati da stupore, da un senso d’incomprensibilità e di dolore.
Un ragazzo e una ragazza si incontrano, si frequentano, si amano; ma a un certo punto uno dei due cerca di distaccarsi. Non ci riesce, perché viene dall’altro riconquistato o perfino condizionato. Cerca ancora di allontanarsi, ma scopre che non gli è più possibile perché non gli è più concesso. Allora si spaventa e vive una fase nella quale, pur fuggendo come da un orrore, non riesce a sopprimere del tutto anche dentro di sé il legame del quale nello stesso tempo prova repulsione.
Iniziano persecuzioni che si trasformano in pentimenti; si esprimono pentimenti che subito diventano persecuzioni. L’amore continua ad attrarre, ma immediatamente si fa orrore e distacco nell’uno, odio e dominio nell’altro.
Quel medesimo amore inizia ad alimentare l’odio e finisce per trasformarsi in vera e propria fonte dell’incondizionatezza di un simile sentimento. Questa terribile belva spirituale, questa funesta Erinne invade l’animo e le membra e trasforma la fuga angosciosa dell’altro nel carnefice della propria sofferenza. Questa si muta a sua volta in piacere; in un piacere che nell’odio diventa pura soddisfazione per l’annientamento altrui…
Qui, in un momento imprecisato, ma rigorosamente puntuale il tempo si arresta, il passato e il futuro cessano di essere l’orizzonte di sé stessi e della propria storia. Tutto diventa istante di annientamento; di un annientamento dell’altro. E come in una catarsi quest’ultimo annientando, annienta anche il proprio odio. Così, porta a compimento la morte; la morte, oltre che altrui, di sé stesso.
Di fronte a queste vicende si possono dire tante cose, si possono fare molti discorsi. Quasi tutti inutili. Ed è proprio grazie di questa inutilità che, tuttavia, è forse possibile esprimere anche una qualche considerazione.
Gli avvenimenti, ai quali con una breve ipotetica descrizione si è fatto riferimento, spesso costituiscono oggetto delle pagine di cronaca dei quotidiani. Si tratta di vicende che ci colpiscono, ma che riteniamo appartenere a un mondo che nulla ha a che fare con noi.
Il fatto che costituiscano oggetto della famelicità della cronaca, ci fa dimenticare che, illustrate dalla magnificenza della grande letteratura, costituiscono anche l’oggetto della più alta forma di espressione dello spirito umano, quella del tragico.
Tuttavia, la quotidianità cronachistica per difetto e l’eternità del tragico per eccesso ci fanno obliare il fatto che gli avvenimenti descritti hanno a che fare con qualcosa di molto profondo che riguarda potenzialmente tutti: la formazione della nostra stessa costituzione esistenziale.
Quando siamo colti dall’orrore di una certa vicenda, rifuggiamo da essa; ma, a causa di tale sentimento, paradossalmente ci avviciniamo senza accorgercene all’orrido, ovvero a quella gola, a quel precipizio nel quale riconosciamo noi stessi, l’origine insondabile della nostra costituzione esistenziale; così profonda, così tale perché il suo fondo è l’infinità stessa oscuramente indeterminata. ‘Noi non ci siamo’. Ma nel medesimo momento una potenza che ci sovrasta si aggira in quel nulla e inizia a violarlo. Lo circoscrive, lo intensifica, lo costruisce, lo struttura in modo tale da porlo come la più paradossale delle realtà: ovvero quell’io che a mano a mano iniziamo a sentire di essere, ma che nel medesimo momento sappiamo di non poter mai vedere e conoscere.
Quell’io nel quale si manifesta il senso più profondo di ciò che è e che per converso riconosciamo come il senso insondabile delle cose, quando lo percepiamo in un Dio che, pur sapendo che c’è, anch’esso mai possiamo vedere. Noi come lui rivelazione e nascondimento, ‘kènosis’ e pienezza di esistenza. Ma questo è il momento di arrivo della nostra esistenza.
Prima essa è forgiata come parto necessario e nello stesso tempo solo possibile di potenze che dall’interno, come dall’esterno, concorrono a far crescere, nell’imminenza dell’annientamento o della sopravvivenza, verso una possibile consapevolezza. A partire dalla vita prenatale la nostra costituzione esistenziale procede verso una meta possibile per sentieri orientati e tuttavia indeterminati; sentieri sempre protesi in avanti anche nel caso della malattia e della morte. Camminamenti il cui fondo plasmabile subito si consolida condannandoci all’irreversibilità sostanziale di ciò che abbiamo acquisito.
Così, con passo lento, fondato come lo è quello di montagna, ciascuna esistenza si forgia nella fucina delle tempeste, delle piogge e dei venti, ma anche delle sensazioni e dei sentimenti, per giungere ognuno per una strada diversa verso il compimento della propria costituzione.
Questa si afferma come vita e volontà di vita, foss’anche intesa come desiderio di morte. Tanto è incondizionata la sua pretesa. Si afferma in tal modo, come volontà di vita, ora per affermare una forza, ora per colmare una debolezza; ovvero per un desiderio di vita. Altrimenti la volontà perderebbe di senso e appassirebbe nel solo vuoto, vuoi della vanità, vuoi della mestizia e dell’ozio.
Volontà di vita, dunque, che è anche debolezza, trasfigurazione per la gioia del proprio senso di trascendenza, ma ad un tempo disorientamento e smarrimento fino a dolore e pianto. Mentre si accresce e si costruisce, la nostra esistenza sente il sempre più intenso desiderio di gioia, che tuttavia danza come sul ciglio di un dirupo; senza poter ottenere che il turbinio dei nostri sensi e il senso di quelle forze che capricciosamente ora accarezzano, ora trafiggono, possano ascoltare la silente preghiera con la quale invochiamo muti una materna, inconscia protezione da noi stessi e dalle cose.
Ci rifuggiamo in essa, nella carezza materna, per ritrovarci; rifuggiamo da essa per non essere oppressi. Se la carezza è lieve, lentamente nel suo fruscio impariamo le vie per far fronte alla violenza delle forze che ci hanno gettato alla vita; se, invece, inganna se stessa, la sua levità si trasforma, divenendo ora fonte di una celata frantumazione di ciò che avremmo potuto essere, ora causa di una esaltazione insensata, a sua volta ingannevole ed esposta alla violenza della nostra volontà incondizionata.
In questo fondo nascosto fatto di fragilità e dominio si cela un’incapacità di avere signoria sulla nostra esistenza; in esso si nasconde l’imminenza di una violenza, inconsapevole, pronta a spalancare all’improvviso le porte dell’inferno.
Una simile, tragica esistenza, incondizionabile e incondizionata, pronta a donarsi a patto che altri si faccia annientare, di fronte allo spavento e alla fuga si sente annientata. Così, la mia vita può alla fine sopravvivere solo mediante l’altrui morte.
Mancando quella tale signoria su sé stessi, non si è più in grado di sentire nel rifiuto più aspro la porta che ci apre il cammino verso una sofferenza che ci fa trascendere l’annientamento, il proprio, fino a veder risorgere nel dolore e grazie a esso noi stessi. Non siamo più nella possibilità, di fronte al rifiuto, di trasformare, come fece un certo Gesù, la propria potenza in una sofferenza capace di far risorgere la propria esistenza.
Una volta aperte le porte dell’inferno l’unica cosa che resta, oltre una vita che è divenuta morte, è: la libertà di espiazione; che tuttavia nel nostro mondo ci è anch’essa malignamente sottratta imponendoci una redenzione funerea, perché priva appunto di quella.
Quante volte la fioritura di una pianta significa la morte di un’altra! Allo stesso modo ciò può accadere tragicamente per la nostra costituzione esistenziale. La nostra esistenza in certe condizioni e in relazione a certe altre esistenze può trasformare la propria affermazione e la propria sopravvivenza in una morte altrui che conduce anche ad un tempo alla morte ipotetica dello stesso assassino.
Essa cela in sé la possibilità della violenza. Ed è proprio per arretrare da una simile possibilità che abbiamo costruito, quasi guidati dalla mano della natura, i modi per trasfigurarla. A partire dalla famiglia fino allo Stato.
Se il branco si forma, è per difendere i suoi componenti a partire dalla loro nascita. Se la famiglia sorge è perché in un branco sempre più esteso diviene necessario difendere gli individui, a sé più vicini, dagli altri. Sorge dal bisogno di difendere la procreazione propria, affinché gli individui che possano nascere, siano votati alla difesa in particolare del padre.
Ma è proprio in un simile momento che quel sinolo di affermazione e di governo di sé, nel quale è stata colta la nostra esistenza, in certo modo si scinde. L’ ‘affermazione’ della nostra esistenza viene rivolta all’esterno della famiglia al fine di difenderla; essa in questa nuova funzione diviene violenza da esercitare contro l’estraneo. Il ‘governo’ di quella medesima esistenza viene invece rivolto all’interno e si inizia a manifestare come cura, come neutralizzazione di una violenza che una volta sciolta dalle catene all’esterno può essere sempre rivolta all’interno.
Una tale scissione può divenire sempre più urgente, perché la violenza una volta sciolta dalle sue catene può travolgere tutto. E in effetti il dominio può divenire da violenza verso l’esterno, furia e brutalità verso l’interno, come nel caso di Tito Manlio capace di alzare la spada contro il suo stesso figlio per avergli disubbidito; ma anche come Medea capace di uccidere i propri figli.
Per questo motivo diviene necessario in certo modo neutralizzare la violenza all’interno; diviene urgente trasformare la violenza in cura. Cosa che si può conseguire solo in un modo: trasformando il dominio in auctoritas. Auctoritas del pater, ma anche della madre, della matrona, che in quanto cittadina romana, libera, era considerata degna di rispetto, dotata di un certo potere interno alla casa, con una certa capacità nei rapporti giuridici privati.
La madre non a caso ancor oggi può costituire il fondamento della neutralizzazione della violenza del padre, quando essa stessa costruisca ed eserciti il riconoscimento dell’autorità paterna come retribuzione al fatto di aver fatto venir meno la violenza del coniuge.
A sua volta, questo stesso riconoscimento fa nascere un effetto riflesso; fa sorgere nello stesso padre un suo dovere di rispetto verso la madre.
In questo modo la violenza di un Tito Manlio e di una Medea si vengono a trasfigurare in una sottomissione che è accettabile perché è ad un tempo ammirazione. Cosa che finisce per avere importanti effetti sul comportamento dei figli.
La neutralizzazione della violenza nella figura dell’auctoritas trasforma la violenza stessa in qualcosa di positivo, appunto, nei confronti dei figli. Essa assume le vesti non della mera astensione, del semplice disinteressamento, ma all’opposto di qualcosa di attivo e di forte quanto forte può essere la guida all’azione. Quella neutralizzazione in altre parole mantiene viva in sé una sua forza; anzi resta in qualche modo una forza che si mostra capace di sostenere l’agire dei figli; essa è la ‘Cura’, la dea che non a caso nel mito plasma la creta con la quale viene forgiato ciò che essa desidera fosse da Giove animato e da cui sarebbe sorto l’uomo.
L’auctoritas dà luogo indirettamente alla cura, che a sua volta preserva la famiglia e la convivenza dalla violenza costitutiva delle costituzioni esistenziali per le quali appunto la cura abbia fallito la sua opera.
Risalendo a ritroso dalle belle immagini del mito della Cura fino alla auctoritas, potremo comprendere meglio come uno stolido eguagliamento fra padre e madre, fra genitori e figli possa neutralizzare la responsabilità di tutti verso tutti e far sorgere all’improvviso lo scompaginamento di ciò che il mito e la storia ci insegnano, ovvero che al fondo è sempre in agguato l’insensato, l’atto di apparente follia, la violenza di forze di per loro incondizionabili.
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