Nessun lavoro intellettuale si svolge in vitro e neppure in laboratori chiusi al mondo. Quando passeggiamo con Socrate che ci inquisisce, quando ci ‘ingaglioffiamo’ – il verbo è suo – con Machiavelli, quando seduti su una panchina aspettiamo che l’orologio del campanile batta le 15 per correre incontro a Kant e chiedergli come possiamo diffondere la pace perpetua, quando ascoltiamo la conferenza di Weber su Il lavoro intellettuale come professione, non siamo mai soli. Abbiamo idee ricevute, intratteniamo interrogativi, ci godiamo i ricordi di tante buone letture, costruiamo proposte di soluzione tentando ripetutamente e faticosamente di salire sulle spalle dei giganti leggendo e rileggendo i loro testi. Spesso e, in tempi recenti, molto più spesso, siamo colpiti dalla faciloneria, dall’approssimazione, dalla superficialità degli altri. «L’enfer», nella famosa frase di Jean-Paul Sartre, «c’est les autres». Potremmo lasciarli lì, gli altri, con le loro citazioni sbagliate, spesso di seconda mano e plagiate, con riferimenti fuorvianti, con dimenticanze colpevoli, con il loro estremismo e narcisismo. Potremmo, invece, scegliere un’alternativa apparentemente delicata, molto costosa e rischiosa che consiste nel pensare e nel provare che lavoro intellettuale è anche, regolarmente confrontarsi avec les autres. Il confronto con e la citazione del lavoro degli altri non risponde a nessun bisogno di guadagnarsi/procurarsi scambievolmente confronti e citazioni gratificanti. Risponde, invece, a una certa idea di ricerca scientifica, sbagliando s’impara, trial and error, ovviamente per chi non è nato imparato e rimane a ballonzolare senza grazia ai piedi dei giganti.
Nel mio libro Il lavoro intellettuale. Cos’è, come si fa, a cosa serve (UTET 2023) ho cercato, schematicamente, ma non sacrificando nulla, di spiegare in che modo ho svolto il mio lavoro e come ho capito le modalità seguite da altri studiosi dei quali ho grande stima. Le tappe, tutte interconnesse, talvolta con qualche inevitabile e voluta sovrapposizione, sono: leggere, recensire, ricercare e scrivere, insegnare, predicare – le due ultime sono separate da una linea sottile, ma reale, appena elastica. Non approfondisco, ma ‘condisco’ con due osservazioni che mi paiono molto importanti. La prima è che ciascuna delle attività che ho evidenziato può innervare necessari criteri di valutazione. La seconda, acquisizione per me recente, in un dibattito triangolare su ‘L’Europa verso il mondo di domani’, è che il lavoro intellettuale non può mai esimersi dal citare, anche se apparentemente irrilevanti, le argomentazioni dei dibattenti. L’arroganza narcisistica non è neppure manovalanza intellettuale. Per lo più è sgarbo sgradevole. Va denunciata, sul posto.
Chiedere quale libro letto sta a base di quale espressione, quali elementi utili e suggestivi emergono da libri recensiti, quali lacune mira a soddisfare un libro, un saggio, un articolo, quali testi sono preferibili per una buona trasmissione del sapere agli studenti, infine, quale è il contenuto, quale è lo stile, quale il luogo – mai la cattedra secondo Max Weber – per la predicazione, sono tutte domande legittime le cui risposte possono condurre a domande migliori e all’avanzamento di scienza e conoscenza. Il peccato mortale nel lavoro intellettuale si chiama plagio. Vale, naturalmente, anche per i giornalisti ai quali spesso tocca il compito o se ne appropriano, con altalenante (in)successo di diffondere le più recenti e nuove conoscenze specialistiche. I divulgatori bravi contribuiscono alla formazione dell’opinione pubblica. Quando quell’opinione pubblica si nutre, sostiene, incoraggia il lavoro intellettuale appare probabile che si sia fuorusciti dagli angusti confini dello stivale.
Gianni Biondi dice
Gent. Prof. Pasquino.
La sua pur breve riflessione è stata molto suggestiva, essa mi stimolato due pensieri che le sintetizzo facendo preciso riferimento a quanto da lei affermato.
La prima si riferisce al paragrafo “Il lavoro intellettuale come professione, non siamo mai soli…”
Concordo con lei che è un possibile, importante rimedio alla profonda sofferenza per un senso di soli-tudine che osservo professionalmente, sempre più dilagante nonostante il bluff dei social.
Credo non meno utile riflettere sul processo che tali azioni mentali attivano, esse, infatti, consentono di rivivere, fantasticare, associare esperienze, emozioni scaturite da un nostro privato, spesso presente al-tre volte recuperato, quasi sparato dal profondo del nostro inconscio.
La seconda dove afferma: “Potremmo lasciarli lì, gli altri, con le loro citazioni sbagliate … con il loro estremismo e narcisismo.”
In realtà essi sono in noi, nostro malgrado; seppure a fatica, cerchiamo di definirli: essi ci costringono ad attivare riferimenti, azioni mentali cognitive, emotive, sociali … sono comunque lì e non è facile li-berarsene se non attraverso l’ascolto, il confronto, la riflessione, processi, oggi, poco impiegati.