In Italia, ma non soltanto, si discute molto di lavoro, che manca e che sembra difficile produrre, nonostante la sua offerta, alta, che dovrebbe incoraggiare la crescita della sua domanda. Che cosa è accaduto? Verità economiche elementari non valgono più o ci si trova soltanto di fronte a una distorsione di breve periodo, in attesa che il ciclo riprenda? Fenomeni come la globalizzazione, le emigrazioni, il progresso tecnologico incidono e c’è chi dice che bisogna aspettare che nuove forme di lavoro si delineino e l’offerta si adegui ai cambiamenti. Ma c’è anche chi dice che questa volta il cambiamento è più radicale e la sostituzione del lavoro umano con quello delle macchine, macchine di tipo nuovo, come gli automi, non creerà nuovi spazi per l’occupazione.
Qualcuno si è domandato «ma non sarà poi che il lavoro in sé non è necessariamente una bella cosa, da offrire e da cercare?» Non lavorare meno per lavorare tutti, dividendo un bene prezioso e scarso, ma lavorare meno perché la libertà dal lavoro è una buona condizione. Quando ero giovane (dunque, ere fa) si diceva che la cultura classica, in particolare i suoi filosofi, non avevano avuto occhi per il lavoro, perché espressione di una società che si reggeva sul lavoro degli schiavi; e non era un complimento per la cultura classica. Poi vennero dei filosofi tedeschi, che si erano formati sul neoclassicismo, e spiegarono che ad Atene c’erano gli schiavi, ma i cittadini facevano cose nobili, discutendo di politica nelle piazze, senza rendersi essi stessi schiavi del lavoro, come sarebbe accaduto nell’èra industriale moderna. Eppure in Germania c’era stata una cultura che aveva esaltato il lavoro, non come fattore di produzione, ma come stile di vita, capace di dare dignità e disciplina a chi lo praticava, qualcosa di simile a un servizio militare in tempo di pace; infatti lo stato curava il benessere dei lavoratori anche nella loro vita privata, un po’ come avviene in un esercito nazionale. E nella disciplina, cui il lavoro costringe, consiste la vera libertà. Una relazione questa, tra disciplina e libertà, un po’ sinistra, che si materializzò nella scritta sul cancello del lager di Auschwitz.
Gli utilitaristi inglesi, sempre alla ricerca di società meno afflittive, punta vano invece sulla crescita del tempo libero dal lavoro, resa possibile dal progresso tecnologico e dalla razionalizzazione del mercato del lavoro; ma si domandavano anche che cosa avrebbe fatto la gente nel tempo libero. Vittime del complesso di inferiorità verso i tedeschi, pensavano che forse in Germania, dopo il lavoro nei campi o nelle fabbriche, si leggesse Goethe. Gli inglesi non si perdonarono mai di non aver avuto Goethe; ma poi anche a loro venne il dubbio che, con tutte le sue cure assistenziali, la Germania fosse simile a una caserma, sempre pronta a trasformare i cittadini in soldati.
Oggi all’assillo degli inglesi c’è chi dà una risposta ottimistica: l’alternativa al lavoro è l’ozio creativo. Le macchine faranno sempre di più tutto loro e permetteranno l’accumulo di un reddito che lo stato distribuirà ai cittadini, i quali non avranno più bisogno di consumare tempo e fatica per guadagnare qualcosa. Saranno più uguali, meno competitivi, più sereni e più poveri; ma chi ha detto che la povertà sia una brutta cosa, soprattutto se depurata dall’assillo di liberarsene? Senza soldi non c’è nulla da consumare, ma non si inquina e resta la fantasia con cui riempire l’ozio. Liberiamoci dunque dal pregiudizio che il lavoro sia una bella cosa e renda liberi!
La contrapposizione tra ozio creativo e il lavoro come oggetto di godimento diretto o come creatore di dignità e libertà ha fatto dimenticare che i tipi di lavoro sono molti e che le condizioni nelle quali si esercitano sono diverse. C’è chi ha scelto il proprio lavoro e trae soddisfazione dal suo esercizio, c’è chi non lo ha scelto, non lo considera un esercizio di libertà, non ne trae soddisfazioni indirette ma gode, grazie a esso, di ampi spazi di libertà, c’è chi subisce nel proprio lavoro forti limitazioni, talvolta umilianti, che considera accettabili per le condizioni generali nelle quali esse gli permettono di vivere; e si può andare avanti, immaginando condizioni di lavoro via via peggiori. Ha ancora senso domandarsi se sia meglio essere liberi attraverso il lavoro o nell’ozio?
Così, tra l’esaltazione dell’ozio e quella del lavoro, si è dimenticata la dimensione economica del lavoro, quella per cui è una merce, un po’ più difficile da produrre di altre, perché chi lo offre deve anche concorrere anticipatamente all’acquisto delle cose che produrrà, per stimolare la domanda di lavoro. Per adesso siamo ancora in attesa di macchine con le quali sostituire tutto il lavoro cui si è costretti per campare, facendo affidamento sul lavoro di chi progetta e costruisce le macchine, fino a quando verranno altre macchine che si progettino e costruiscano da sé. Non sappiamo che ozio avremo allora a disposizione; a giudicare dall’ozio praticabile già ora nelle società reali con molto tempo libero, un ozio riempito di consumi, più spesso ripetitivi che creativi. Ma fino a quando non avremo i doni di quelle macchine meravigliose, sarà necessario che qualcuno faccia lavori di ogni genere, compresi quelli afflittivi, per rendere acquistabile l’ozio a un prezzo ragionevole. Allora sarebbe desiderabile non sentire intellettuali, ideologi e preti, che non hanno mai fatto un lavoro vero, sprecarsi nell’elogio del lavoro che impone disciplina e dà dignità, o comici profeti e critici d’arte esaltare il pauperismo, che mantiene poveri i poveri, promettendo loro più ozio, con poche cose con le quali riempirlo; non si dice forse che è appunto la fantasia, cioè l’immaginazione delle cose che si desiderano e non si possono avere, quella che rende l’ozio creativo?
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