È particolarmente felice, per descrivere la struttura della società italiana e comprendere il perché di molti suoi problemi, la distinzione tra associazioni bridging e bonding che è stata sviluppata da Gianfranco Pasquino, sulla scorta di Robert Putnam, nel fascicolo di «Paradoxa» da lui coordinato, dedicato a “Le società (in)civili”. Le prime associazioni, come sappiamo, servono a costruire legami che sono funzionali al benessere dell’intera società; le seconde promuovono gli interessi dei propri affiliati. A partire da questa distinzione voglio riflettere qui su alcuni aspetti del secondo approccio e sul modo in cui esso viene declinato nel nostro paese.
Qualche tempo fa una donna, partorendo un figlio in ospedale, si è opposta al taglio del cordone ombelicale – che secondo lei avrebbe dovuto staccarsi in maniera ‘naturale’ – sulla base di presunti motivi religiosi. Conformandosi alla volontà della donna i medici hanno fatto passare del tempo, fino a quando le condizioni del bambino non sono apparse critiche. A questo punto però, invece di procedere immediatamente al taglio del cordone ombelicale, hanno contattato la magistratura, temendo una denuncia da parte della madre. Il procuratore della Repubblica è immediatamente intervenuto, sottolineando che il primo dovere del medico è quello di salvare vite umane, non già di preoccuparsi di possibili denunce.
Tutto ciò risulta da quanto è stato riportato da vari organi di stampa. Se le cose si sono svolte davvero così, si tratta di una vicenda indicativa riguardo al modo in cui oggi, in Italia, sono concepiti e realizzati, in molti casi, i legami sociali. Abbiamo infatti, anzitutto, l’esponente di un gruppo religioso che, per motivi legati al modo in cui intende una determinata dottrina, mette a rischio la vita di un altro essere umano: addirittura del figlio. Si scontrano qui certe convinzioni individuali, o una particolare ideologia, con il fatto che esse hanno o possono avere conseguenze pesanti su altre persone: sui familiari e sulla società. Pensiamo a ciò che sta avvenendo a proposito della somministrazione dei vaccini.
Abbiamo poi una categoria professionale che ha un compito ben preciso, il quale ne giustifica l’esistenza: il compito di prendersi cura dei malati e di salvare dalla morte le persone in pericolo di vita. La missione del medico – non parlerei semplicemente di un lavoro – richiede la capacità di comprendere una situazione – cioè di fare una diagnosi – e di prendere le decisioni più opportune per ottenere questo scopo. Negli ultimi anni si è però assistito a una proceduralizzazione della terapia, che ha portato a uno sgravio rispetto a tali decisioni. Se infatti si segue la corretta procedura non c’è da decidere nulla, e nulla c’è da temere, nel caso di esiti infausti, quanto a possibili azioni legali. Si riesce così a evitare ogni responsabilità. E s’impone l’idea di una medicina – la cosiddetta ‘medicina difensiva’ – più attenta agli interessi del medico che a quelli del paziente.
Tutto ciò ha certamente i suoi motivi. È quasi un’abitudine, ormai, pretendere dal medico l’impossibile, salvo poi denunciarlo se la natura segue il suo corso. Tanto più che non sono rare le sentenze che, condividendo l’idea di una medicina onnipotente, hanno condannato medici colpevoli solo di non aver potuto prevedere tutto. Entra così in gioco la terza categoria, quella della magistratura. Che, se pure non ha il potere di vita o di morte proprio dei medici, ha certo la possibilità d’incidere in maniera dirompente sulla vita delle persone.
Rispetto a ciò è necessario di nuovo che le decisioni assunte siano decisioni responsabili. E non sempre lo sono, non sempre sono quelle più opportune, visto che le sentenze sono stabilite da persone con profili differenti – culturali, psicologici, ecc. – e risultano spesso influenzate dalle circostanze. Ecco perché, prima di fare qualcosa che può provocare una denuncia, giusta o ingiusta che sia, conviene consultare un avvocato, o – meglio ancora – il procuratore della Repubblica. Meno male che questi si è espresso in maniera corretta e inequivocabile.
Non credo vi siano dubbi sul fatto che in Italia, oggi, lo scenario sia anche questo. Le cronache sono piene di episodi che, forse in maniera meno emblematica di quello appena citato, dimostrano il prevalere, nei rapporti tra le varie associazioni o gruppi sociali, di un atteggiamento di conflitto piuttosto che di cooperazione. Eppure, per porre rimedio a tali storture, basterebbe poco. Lo mostra proprio una riflessione sul nostro episodio. Basterebbe anzitutto tener fermo il fatto che a nessuno – pur nel rispetto delle sue convinzioni ideologiche e religiose, e, anzi, proprio tenendo conto di esse – può essere concesso di danneggiare altre persone.
Basterebbe poi tener conto della funzione e dei compiti specifici che giustificano l’esistenza di una professione, e del fatto che, se non ci si conforma a essi, non si ha il diritto di appartenervi. Infatti il far parte di una categoria è qualcosa che va comprovato costantemente attraverso il retto esercizio di ciò che la categoria stessa richiede di fare. Infine, è vero che tutte le professioni hanno un’incidenza più o meno ampia sulla vita delle persone. Ma ciò non dev’essere inteso nei termini dell’esercizio di un potere, di un potere di affermazione individuale, bensì come l’assunzione di una responsabilità nei confronti degli altri. È questo ciò che rende possibile la coesione sociale.
Basterebbe poco, dicevo: forse solo un po’ di buon senso. Basterebbe pensare che la relazione o è una relazione con gli altri, nella quale io stesso trovo la possibilità di realizzarmi, o non è nulla. Ma forse si tratta di un poco che è troppo. Troppo per un popolo, come quello italiano, che molte volte non è riuscito, nel corso della sua storia, a trovare adeguata rappresentanza in un contesto pubblico e che è incapace, spesso, di esprimersi come comunità intera. In Italia anche la festa della Repubblica, anche la celebrazione del 25 aprile sono state occasioni di polemiche. Come stupirsi se poi ognuno pensa solo a sé o, al massimo, ai suoi?
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