(A partire dall’evento A spasso tra i libri di Gianfranco Pasquino, tenutosi il 22 febbraio 2018 presso la Biblioteca della Fondazione Nova Spes)
Si guarda intorno prima di cominciare, Gianfranco Pasquino, abbracciando con lo sguardo gli scaffali della biblioteca della Fondazione Nova Spes. Forse aveva immaginato qualcosa di diverso quando il Segretario generale della Fondazione, Laura Paoletti, lo aveva invitato a ripercorrere la sua biografia intellettuale attraverso i più di 4.000 volumi che, nel corso degli ultimi tre anni, il politologo ha donato alla biblioteca. Magari, ingannato dal titolo dell’iniziativa, si aspettava una ‘passeggiata’ vera e propria, e non solo figurale, tra i suoi volumi.
Se pure così è, non lo dà a vedere… più di tanto. Prende la parola, e traccia le stagioni principali della sua vita attraverso i libri che ne hanno fatto parte: acquistati con intenzione o scovati per caso, ricevuti in dono o in scambio; studiati con cura, consultati in modo mirato o solo sfogliati; letti per curiosità, recensiti o discussi a voce. Da tutti, anche da quelli più lontani dai suoi temi di interesse o dal suo approccio a quei temi, ha imparato qualcosa, foss’anche come non si dovesse fare ricerca – perché tra gli scaffali della biblioteca ci sono, naturalmente, anche i frutti dell’attività di ricerca di Pasquino, libri scritti e curati da lui. Un patrimonio piuttosto ricco, sottolinea il professore con una punta di compiacimento: alcuni volumi conservati a Nova Spes, peraltro, sono irreperibili altrove, e fanno di questa biblioteca un polo tutt’altro che trascurabile per gli studiosi di scienza politica.
Ma questi volumi pregevoli e introvabili, in fin dei conti, hanno poi ancora qualcosa da dire, oggi, alla scienza politica? Marco Valbruzzi, che ama definirsi «l’ultimo allievo vero e sincero» di Pasquino e che Nova Spes ha invitato con il preciso obiettivo di fargli stuzzicare il maestro, tira (metaforicamente) giù dagli scaffali l’Antologia di scienza politica, un volume del 1970 curato da Giovanni Sartori al quale ha contribuito, tra gli altri, lo stesso Pasquino. In quel testo, curatore e autori si erano dati una missione precisa: ‘abbassare’ la scienza politica, portarla con i piedi per terra, calarla nella realtà. Ebbene, sonda un po’ provocatoriamente Valbruzzi: a distanza di quasi cinquant’anni, che bilancio ne danno gli autori?
Quello di Domenico Fisichella, che siede in prima fila e figura, anch’egli, tra quegli autori, non sembra troppo positivo: il dramma della scienza politica italiana è di essersi progressivamente settorializzata, incuneandosi in questa e quella disciplina specifica e perdendo di fatto una visione d’insieme, organica, sul presente. Oggi non c’è, realmente, qualcuno che faccia scienza politica: ci sono al più tecnografi che si occupano di gruppi di pressione, forme di governo o vicende partitiche, ma che hanno dimenticato la storia delle istituzioni e del pensiero politico. È ciò che Sartori, in modo un po’ brusco, definiva «analfabetismo politologico»: la mancanza di uno sguardo diacronico, trasversale sulla realtà rende il politologo inabile a leggerla e tradurla in categorie utili a intervenirvi.
Una sorte comune, chiosa Andrea Bixio, condanna del resto la sociologia generale – disciplina che Sartori ha insegnato all’università – che già dopo la prima generazione di studiosi ha incarnato perfettamente questo processo di iper-specializzazione, diventando una sorta di contenitore vuoto di tutte le piccole ‘immondizie’ della società contemporanea. Di ‘generale’, di fatto, la sociologia non ha più nulla, e paradossalmente oggi a un Alessandro Pizzorno non verrebbe mai data una cattedra in Italia: occupandosi di fenomeni ‘troppo’ generali, non sarebbe riconosciuto come sociologo.
Pasquino si dichiara perfettamente d’accordo. Sulla crisi della sociologia si è scritto molto, e chiamarla in causa restituisce perfettamente la frammentazione disciplinare che sta mangiando le scienze sociali. Sulla necessità di un approccio sistemico, peraltro, lo stesso Norberto Bobbio aveva insistito a più riprese.
Su questo punto il professore, che a separarsi dai suoi libri su Bobbio è piuttosto restio, accetta di buon grado la bonaria stoccata di Valbruzzi, che non si lascia scappare l’occasione per fargli notare l’assenza del Profilo ideologico del Novecento dagli scaffali di Nova Spes. E se il professore ha buon gioco nel dire che – ovviamente – il volume si trova al sicuro a casa sua, lo stesso non può dirsi, fuor di metonimia, per le culture politiche che in esso erano discusse. Ed è questo punto che Valbruzzi ha a cuore: in che senso quel volume, oggi, ‘manca’? Un ‘profilo ideologico’ del XXI secolo, analogo a quello delineato da Bobbio nel 1986, deve ancora essere scritto o, in modo radicale, non può essere scritto, perché non esistono più culture politiche da indagare?
Da questo punto di vista, replica il professore, l’esperimento condotto con il numero di «Paradoxa» sulla scomparsa delle culture politiche in Italia (il quarto del 2015) già ha dato una risposta: il fatto stesso che più d’uno degli autori si sia addirittura rifiutato di riconoscere la ‘scomparsa’ della sua cultura politica di riferimento, dà pienamente conto che un problema c’è, e che perlopiù non viene percepito. Ma anche se gli studiosi partissero da una lucidità storica e politica condivisa, e riconoscessero di concerto che, sì, effettivamente, dopo il crollo del muro di Berlino, le ideologie stesse sono entrate in crisi, di fatto chi di loro potrebbe essere all’altezza dell’impresa di Bobbio? Il compito, a volersene far carico, sul capo dei politologi pende eccome. Il problema è che nessuno, o quasi, parrebbe esserne consapevole; e se consapevole, difficilmente ne sarebbe all’altezza. Questa visione, già piuttosto amara, è condivisa ed esasperata da Bixio, per il quale già lo stesso Bobbio, negli anni Ottanta, aveva rilevato come tutta la cultura politica italiana stesse finendo in scacco.
Politica e cultura, peraltro, si intitola uno dei testi forse più noti di Bobbio, che esce nel 1955. In questo volume, un po’ controvoglia, l’autore sceglie per sé il ruolo dell’intellettuale, per definirne i contorni rispetto alla società: l’uomo di cultura è colui che media, che dialoga, moderando e stemperando le punte più acuminate delle varie istanze politiche e ideologiche dei suoi tempi, senza schiacciarsi su nessuna. Continuando a far divergere e convergere passato e presente, Valbruzzi condensa la questione in una delle domande che guidano questo incontro: ‘e oggi?’. Qual è, oggi, il ruolo dell’intellettuale? E come se ne incarica – se se ne incarica, pur con la stessa riluttanza di Bobbio – Pasquino?
E Pasquino rincara: in Bobbio convivono riluttanza, distacco, ma anche un certo grado di civetteria. In fin dei conti, in quel volume sta sottolineando che il compito dell’intellettuale è sollevare dubbi, non sciorinare soluzioni, e questo aspetto riesce a vestirlo senza particolare ritrosia. C’è da dire poi che le soluzioni, anche quando trovate, sapevano essere impietose: in Quale socialismo?, ad esempio, la risposta – ‘non quello dei comunisti!’ – non dà appello.
Per quel che lo investe direttamente, Pasquino glissa con abilità, rimandando a quanto espresso ne Il lavoro intellettuale come professione di Max Weber che, senza ristagnare in dettagliate analisi scientifiche, offre un quadro quanto mai attuale. E oggi, salvo poche, rare eccezioni, i grandi professori sono più che altro grandi professori, e non si occupano di altro.
Sulla stessa linea di Bobbio è Fisichella, che per l’intellettuale rivendica il ruolo di consigliere per le questioni politiche, libero da qualsivoglia appartenenza partitica o ideologica. Il guaio è che forse, oggi, quello di ‘intellettuale’ è un cappello che nessuno vuole più indossare: Fisichella cita divertito George Bernard Shaw, quando affermava: «scrivo da quarant’anni, ma “intellettuale” in faccia non me l’ha mai detto nessuno!». Del resto, se le scienze sociali si muovono per discipline che non si incontrano, se manca uno sguardo trasversale, se i grandi sistemi culturali sono entrati in crisi e se, di fatto, l’intellettuale oggi non è che un ‘addetto ai lavori’ del proprio settore iper-specialistico; se tutto questo è vero, si diceva, non manca di un certo, ironico gusto per il linguaggio performativo affidare la consistenza attuale dell’intellettuale a un aforisma.
Andrea Bixio, Riccardo Pozzo e, seppur con qualche cauto cenno ottimistico, lo stesso Pasquino, concordano con questa visione, che del resto sembra convogliare quanto emerso sinora: l’intellettuale, oggi, è un tecnico della ricerca scientifica, che raramente alza lo sguardo dal libro – che studia, che scrive – per incontrare la realtà.
Se vogliamo, i volumi che traboccano dagli scaffali di Nova Spes, solidali con il loro autore/lettore, ci ammoniscono proprio in questo senso: che a Pasquino piaccia o no sentirselo dire – o trovarselo scritto – la sua è la biblioteca personale di un intellettuale, nata e cresciuta tra le mani di uno studioso che si è documentato, ha teorizzato, ma ha anche provato a incidere la realtà politica con gli strumenti che si stava dando.
Non si stupisca allora il lettore che, da questa panoramica, ricavasse l’impressione di una sorta di rimpatriata tra ex compagni di scuola che, un po’ nostalgici, un po’ accorati, rivangano i tempi che furono e che mai più torneranno: non sbaglierebbe. E nulla sembra potere lo stesso Valbruzzi, che in modo più o meno guardingo ha provato a portare acqua al mulino dell’oggi e del domani, rivendicando anche per la sua generazione lucidità e lungimiranza d’analisi: la scuola di Sartori e Bobbio non concede appello al presente, e dubita che il passato abbia modo di innervarlo.
Passeggiare nella storia della cultura politica italiana si risolve, allora, nella constatazione che la scienza politica sta tutta tra le pareti di una biblioteca, accuratamente divisa per settori, e che il politologo è colui che maneggia, spolvera e riordina una o due file (sempre le stesse), senza mai tirare davvero giù quel sapere?
Guardando retrospettivamente al percorso di Pasquino (ma anche semplicemente curiosando tra le sue vivaci attività social), la risposta, un ‘no’ stentoreo, risuona forte e chiara: il politologo ha molto da dire, e compito di chi ‘sa’ è orientare, anche bacchettando se necessario, chi ‘fa’.
Eppure, parrebbe di poter dire, il problema resta. Perché se (a ragione) conveniamo che la scienza non deve rimanere lettera morta nei libri, ma vivificare l’azione politica, il rischio di rimbalzo è di metterla in cattedra. Anche da lì, però, andrebbe tirata giù.
Tertium datur? La domanda, che naturalmente non può che rimanere in sospeso, vuole essere un invito a una riflessione condivisa, un timido appello a proseguire la nostra passeggiata con una (seppur cauta) fiducia nella possibilità che le assenze e le lacune rilevate a questo incontro possano essere colmate, con una forse maggiore propositività nell’ipotizzare nuove vie d’incontro e dialogo tra scienza politica e realtà.
Negli anni Cinquanta, Bobbio aveva indossato un cappello un po’ scomodo: pur con riluttanza, aveva preso su di sé il ruolo di colui che, libero da pressioni e schieramenti, media tra forze ideologiche divergenti; che non offre soluzioni pronte ma problematizza, instilla dubbi, delinea possibilità; senza cedere alla tentazione di rifugiarsi tra le carte, né all’impulso di dettare l’agenda politica. Forse quel cappello qualcuno, oggi, deve calcarselo nuovamente in testa.
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