Nella Storia d’Italia, Benedetto Croce riferisce in forma di aneddoto un dialogo fondamentale per capire la politica estera del paese. Nelle stanze del ministero delle Finanze, lo studioso di antichità romana Theodor Mommsen si rivolge a Quintino Sella. Croce raffigura l’intellettuale tedesco come in preda alla concitazione, quantunque i toni appaiano piuttosto sarcastici e taglienti: «Ma che cosa intendete fare a Roma? Questo ci inquieta tutti, a Roma non si sta senza avere dei propositi cosmopoliti». La ferma risposta attribuita al politico piemontese è che, a Roma, il proposito cosmopolita del Regno d’Italia sarà «la Scienza». Il botta e risposta tra Mommsen e il ministro Sella ci mette sulle tracce del falso mito che assegna agli italiani una missione speciale, cioè emulare nella sua eminenza mondiale la Roma antica o quella cristiana. Il nome di Sella è storicamente legato a una politica di rigore nella finanza pubblica, con l’obiettivo di avviare un sano processo di crescita economica. La sua attività fu rivolta al perfezionamento dell’unità del Regno. Anzitutto si pose come scopo principale il pareggio del bilancio statale, attuando un inasprimento fiscale che non risparmiò i consumi popolari. Poi fu ideatore di iniziative per l’istruzione tecnica e professionale, contribuì alla costituzione delle casse di risparmio postali, rese possibile il riscatto da parte italiana delle ferrovie dell’Impero Austro-Ungarico e, nello stesso momento, favorì la privatizzazione di quelle dello Stato piemontese. Si oppose all’intervento dell’Italia a fianco della Francia contro la Germania e fu tra i più tenaci sostenitori della presa di Roma. La sua risposta a Mommsen offre una nitida immagine di una élite che intendeva avvicinarsi sempre più all’Europa, pienamente disposta e forse anche capace di metabolizzare il passato avviando un processo di modernizzazione e crescita scientifica e culturale. In questo quadro, la politica estera doveva essere posta al servizio del processo di modernizzazione, come un’ancora gettata all’esterno per favorire il consolidamento istituzionale. D’altro canto, questa stessa élite era consapevole di dover affrontare diffidenze internazionali e propositi cosmopoliti sempre latenti in altri settori della popolazione.
Difficoltà a capire la politica di Roma, tenuto conto del lascito del fascismo, furono espresse nel dopoguerra in un modo differente da Norman Kogan. La tesi dello studioso statunitense è che vi fosse una netta subordinazione, in Italia, delle scelte di politica estera rispetto alle esigenze della politica interna. Pur spostando la prospettiva dal peso della storia antica all’analisi del sistema politico democratico, Kogan non vide nella politica estera italiana la ricerca di un’ancora del consolidamento istituzionale. Anzi, egli si persuase che il principale obiettivo della politica estera, in Italia, fosse proteggere la struttura sociale dai pericoli interni. Il primato della politica interna sulla politica estera si era reso manifesto, a parer suo, nelle parole pronunciate dal ministro degli Esteri, Carlo Sforza, a conclusione dell’intervento in Assemblea costituente per la ratifica del trattato di pace: «Una politica estera non è che lo specchio della politica interna». In effetti, l’enigma celato dalla metafora non era di facile soluzione. Nel gioco di specchi tra interno ed esterno, il politologo statunitense vide l’incapacità di perseguire gli interessi nazionali e fronteggiare i pericoli esterni, a causa del prevalere di pericoli e compromessi interni. Mentre in realtà, per Sforza, l’accettazione del trattato di pace fu il primo passo per consentire all’Italia di essere riammessa nel sistema internazionale, così ancorando la fragile democrazia alle istituzioni occidentali. A dispetto delle posizioni espresse dallo stesso Croce, il quale denunciò nel dibattito parlamentare quanto il paese fosse costretto dagli alleati a pagare il conto salato della ‘parentesi fascista’, Sforza chiedeva la ratifica dell’’ingiusto atto’ di Parigi per avviare il risanamento economico-finanziario dell’Italia, dopo l’estromissione delle sinistre dal governo e il lancio del Piano Marshall.
Negli ultimi anni, un crescente numero di osservatori ha messo a fuoco una terza giuntura storica, equiparabile alla nascita del Regno e alla transizione post-bellica verso la democrazia. Si tratta dei negoziati per l’Unione europea che hanno preceduto e indirizzato la lunga stagione chiamata Seconda Repubblica. Ancora una volta l’Italia ha affrontato un cambiamento epocale, la fine della guerra fredda, cercando un ancoraggio esterno, l’Unione monetaria o il vicolo europeo. A differenza delle altre due volte, tuttavia, l’ancoraggio è apparso più instabile fino al punto che, ancora oggi, nelle stanze del potere europeo, ma anche in quelle atlantiche, ci si chiede che cosa vogliono gli italiani. La domanda è aleggiata nell’ultimo viaggio a Washington del candidato premier del Movimento 5 Stelle, Luigi Di Maio. Il giovane vice-presidente della Camera ha assicurato gli interlocutori istituzionali che nel programma di politica estera del Movimento, approvato online dagli iscritti, non si propone l’uscita dalla Nato, bensì una riforma dell’organizzazione militare, neppure si prospetta l’uscita dall’Unione europea, bensì una riforma dei trattati, così come non si indica un avvicinamento alla Russia, bensì una riconsiderazione dei rapporti diplomatici. Vero è che il linguaggio del programma poggia su narrative anti-globaliste e anti-imperialiste, evocando nuove alleanze con il Sud del mondo. Ma rispondendo al Washington Post (https://goo.gl/i7ktey), Di Maio ha voluto precisare che i 5 Stelle non sono populisti. I propositi impliciti nelle retoriche del programma non trovano riscontro nelle proposte concrete. Con buona pace di Kogan, proprio ciò potrebbe consentire ai grillini di trovare margini di manovra per la ricerca di alleanze politiche in Italia e in Europa. Per il resto, alla domanda su che cosa intendono fare a Roma difficilmente potrebbero rispondere come fece l’ingegnere piemontese, il quale, scomodando ancora una volta Croce, traghettò l’Italia dalla ‘poesia’ del Risorgimento alla ‘prosa’ del governo post-unitario. D’altronde, chi è capace di dirci oggi che cosa potrebbe fare un esecutivo, con sede a Roma, per passare dalla ‘poesia’ dell’Europeismo alla ‘prosa’ del governo sovranazionale?
[Emidio Diodato è co-autore, con Federico Niglia, di Italy in International Relations: The Foreign Policy Conundrum, Palgrave Macmillan, 2017].
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