[Editoriale da «Paradoxa» 2/2017, Le società (in)civili, a cura di Gianfranco Pasquino]
Questo fascicolo si offre a due livelli di lettura; ma forse anche a due letture e infine persino a due lettori di tipo diverso: per questo è bene fare chiarezza.
Il primo livello, più immediato, è quello di un’ampia ricognizione, che si fa denuncia circostanziata, di sacche di inciviltà: quelle sacche che si creano quando la società (in prima battuta) civile si ripiega su se stessa, frantumandosi in gruppi e comportamenti autoreferenziali che di civile hanno ben poco. Il passo dalla legittima tutela di un’identità, professionale o di altro genere, a quella degenerazione che felicemente il Curatore definisce «corporativismo amorale» è purtroppo breve: lo dimostra la variegata fenomenologia dell’inciviltà qui proposta, che spazia da categorie più ovvie (i politici, per esempio) a quelle assai meno scontate in questo contesto( le associazioni femministe, per esempio). A questo livello, la lettura è istruttiva, persino godibile e tutto sommato facile. Ma proprio perciò rischiosa. Se ci si limitasse a questo, infatti, si correrebbe il concreto pericolo di ritrovarsi membri di diritto dell’ennesima delle società incivili: quella degli autocompiaciuti fustigatori della Casta, che sono tanto più coesi quanto più indistinto e ‘altro’ è il bersaglio dell’indignazione, sempre rivolta a loro, gli altri, che sono incivili, mentre noi… Se questo fosse il tipo di associazione che «Paradoxa» crea tra i suoi lettori – un’associazione fondata sul luogo comune – avremmo, diciamolo senza mezzi termini, fallito (e dovremmo quanto meno scegliere un altro nome per la rivista). Per questo è indispensabile integrare il primo livello di lettura con il secondo, quello difficilior, che il fascicolo non soltanto consente, ma esige.
Ad un livello più profondo, il tentativo che viene presentato qui è quello di una riflessione sulle categorie che rendono possibile comprendere, interpretare e infine valutare le diverse forme del vivere associato. In questo senso è inevitabile un confronto, ingaggiato da quasi tutti gli autori, con il concetto di «capitale sociale» di Robert Putnam. La necessità di ricorrere ad una nozione strutturalmente problematica come quella di «capitale sociale negativo», che afferma e insieme smentisce il carattere di ‘risorsa’ della grandezza da misurare, esprime con chiarezza la portata del problema su cui ci si interroga: il legame sociale non soltanto non è univoco (e già la classica tripartizione tra bonding, bridging e linking lo attesta chiaramente), ma non è nemmeno univocamente un valore. Ne discendono due conseguenze, una più radicale dell’altra. La prima è che non possiamo interpretare l’inciviltà semplicemente come una deviazione contingente, che riguarda occasionalmente certi raggruppamenti piuttosto che altri, ma come una possibilità insita nel legame come tale, che sia vincolo, ponte o nesso: non deve quindi stupire che tra i vari casi di studio qui presi in esame compaia la mafia, alla quale viene persino attribuita una certa funzione paradigmatica. La seconda è che non possiamo più illuderci di disporre di un’attrezzatura concettuale adeguata e definitiva per porre il problema della qualità delle varie forme del nostro vivere associato: al punto che i contorni stessi dell’oggetto di cui si parla – la o le ‘società’ – risultano assai più sfumati di quanto possa sembrare a prima vista. Una delle domande più interessanti che emergono dal fascicolo, infatti, è se sia davvero possibile ricondurre ad un unico concetto le diverse realtà di cui qui si parla: se cioè siano allo stesso titolo ‘società’ i magistrati o i professori (entro certi limiti legittimati a difendere gli interessi legati alle loro figure professionali), i politici (che invece per definizione dovrebbero occuparsi esclusivamente degli interessi di quelli che rappresentano) e la rete (che è più che altro un medium, per cui non è certo che si possa parlare di un interesse che la muove in quanto tale). D’altra parte non è nemmeno chiaro se sia l’eventuale illegittimità degli interessi attorno a cui si addensa un certo gruppo sociale ciò che ne determina il tratto di ‘inciviltà’. La lettura trasversale dei diversi contributi fa affiorare un elemento che sembra più profondo e più promettente e che potremmo esprimere nei termini di una tensione (ben nota alla filosofia politica contemporanea) tra ‘comunità’ e ‘immunità’: in tal senso la possibile inciviltà potrebbe annidarsi in quella sospensione – di per sé inevitabile e anzi sacrosanta – di certi obblighi o doveri che la comunità accorda a certe categorie proprio perché lavorino il meglio possibile al bene comune: l’immunità parlamentare ne è l’esempio più evidente. E non per caso, distorta quanto si vuole, è sempre l’immunità (dalle norme di uno Stato inefficiente) uno dei tratti più tipici dell’autopercezione e della narrazione mafiose.
Come si vede, le domande sollevate da questo fascicolo lasciano ben poco spazio alle pseudo-certezze del lettore ‘facile’ e facilmente indignato di cui sopra e chiamano piuttosto ad un percorso, difficile, di ricerca. Proviamo a cogliere la sfida e lanciamo un’ipotesi di lavoro: e se la nozione di ‘inciviltà’ e di società incivile potesse essere meglio afferrata alla luce di quell’idea di «capitale civile» (cfr. Zamagni in «Paradoxa» 1-2009), che integra il «capitale sociale» di Putnam con «capitale istituzionale» (p. 24) e con «la matrice culturale che plasma l’ethos pubblico di una comunità o di un Paese» (p. 25)?
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