Il Consiglio Europeo del 20 e 21 febbraio, convocato in seduta straordinaria per approvare il nuovo Quadro Finanziario Poliennale (QFP) 2021/2027, è naufragato in una bolla di irritualità, digrignamento di denti e divisioni apparentemente incomponibili, gettando una luce pericolosa sulla fenditura che forse era implicita, ma non così manifesta, nella nuova Europa a 27: la diaspora tra i virtuosissimi europei del centro nord – Austria, Svezia, Danimarca, Olanda e Germania – e gli altri 22 Stati membri, con Italia e Francia come capilista.
L’attesa di atti concludenti intorno al fondamentale documento finanziario, chiamato a regolare la vita dell’Unione dopo la formale chiusura del lungo e inquieto capitolo Brexit, è stata, dunque, vana.
Dopo l’inutile (ma rituale) seduta-fiume di giovedì 20 e dopo l’andamento sincopato (irrituale) con l’alternanza di convocazioni e rinvii di venerdì 21, una seduta fulminea nella serata ha mandato tutti a casa, senza un orizzonte plausibile per la nuova convocazione. Le posizioni dei singoli governi appaiono ancora distanti su questioni centrali, a partire dalla dotazione complessiva del bilancio. Allo stato dell’arte, pertanto, appare più probabile che la chiusura della fase negoziale tra i governi dei 27 paesi UE possa aversi non prima del secondo semestre del 2020, probabilmente sotto la presidenza della Germania.
La posta in gioco è grossa e trova più di una ragione di contrasto, a partire dalla nuova ripartizione delle risorse presentata dalla Commissione il 2 maggio 2018 che non trova allineati tutti gli stati membri. L’entità complessiva prevista dalla Commissione per il QFP 2021/2027 era pari a 1.135 miliardi di euro in termini di impegni, che avrebbero corrisposto all’1,11% del Reddito Nazionale Lordo dell’UE. L’impegno in aumento era previsto in 175,1 miliardi di euro.
D’altro canto, la Brexit e la conseguente sottrazione di risorse correnti da parte del Regno Unito, comporterebbe una riduzione nel bilancio annuale della UE di 10-12 miliardi e il conseguente aumento delle quote di contribuzione da parte degli Stati-membri, anche se non di tutti e non in eguale misura. Secondo le proiezioni della Commissione, infatti, il recesso degli Inglesi comporterebbe un maggiore esborso per Germania (+ 5,2 miliardi di euro), Paesi Bassi (+0,700 miliardi di euro), Austria (+ 600 miliardi di euro), Danimarca (+0, 100 miliardi di euro) e Irlanda, che passerebbe da beneficiario a contributore netto di 0,8 miliardi di euro). L’Italia, invece, insieme con la Francia e la Svezia vedrebbe ridotto il suo contributo (rispettivamente di -1,8 miliardi l’Italia, -2,2 la Francia e -0,200 la Svezia).
Ma il blocco dei paesi cosiddetti ‘frugali’, che coincide con il gruppo dell’area centro-settentrionale, ha chiesto l’approvazione di un bilancio sostenibile che non superasse l’1% del Reddito Nazionale Lordo dei 27 Paesi UE, indicando, peraltro, un mutamento nella scala delle priorità che privilegi l’innovazione e la competitività, comprimendo le risorse per le politiche di coesione e agricole.
Un folto gruppo di Stati membri, invece (che comprende anche l’Italia e include Francia, Grecia, Estonia, Lettonia, Lituania, Polonia, Portogallo, Slovacchia e Ungheria), che aveva già giudicato insufficienti le risorse predisposte dalla Commissione, ha sostenuto l’implementazione dei finanziamenti per i settori che rappresentano le nuove priorità. Come le migrazioni, la difesa e la sicurezza e gli ambiti valutati come fondamentali per la competitività, vale a dire la ricerca, l’innovazione, lo spazio, il digitale, senza intaccare le dotazioni per la politica agricola comune (PAC) e le politiche di coesione.
La proposta mediativa della Presidenza indicava l’1,074 del PIL, pari a 1095 miliardi di euro. Una mediazione, peraltro, sensibilmente al di sotto anche della richiesta del Parlamento Europeo, che aveva manifestato l’esigenza di far lievitare il livello del QFP all’1,3%, pari a 1324,1 miliardi di euro, non è riuscita a trovare margini di accoglimento.
La partita in gioco per il nuovo QFP è strategica: l’investimento nel nuovo orizzonte delle priorità, se non c’è una dotazione aggiuntiva volta a garantire il mantenimento delle risorse destinate alla PAC e alla politica di coesione, verrebbe a sottrarre ai due comparti rispettivamente il 5 e il 6% rispetto al QFP 2014/2020. Per l’Italia, sarebbe una perdita secca di 4,7 miliardi di euro per la politica agricola e forse un guadagno per le politiche di coesione.
Ma, oltre la contabilità dei decimali, pur rilevante quando la quantità delle provviste finanziarie supera i mille miliardi di euro, il fallimento del vertice di Bruxelles ha anche una valenza politica: il primo Consiglio Europeo dopo la Brexit segna una frattura che segue le linee del PIL, piuttosto che le coordinate geografiche, con buona pace dello spirito comunitario e dell’idem sentire europeo.
È sempre avvenuto, in verità, che i paesi del nord Europa facessero i rigoristi a scapito di tutti gli altri, ma in passato sotto un velo di pudicizia stemperato dalla necessità diplomatica. Oggi, quel velo si è strappato. E non è detto che sia un male, se Italia e Francia riescono a creare un raccordo stabile con i paesi del Sud e quelli dell’Est. Se così non avvenisse, diventa facile una profezia: la partita sarà chiusa con la presidenza tedesca nell’ultimo miglio utile del 2020. E a quel punto sarà per tutti prendere o lasciare.
Gianfranco Pasquino dice
questo è il tipo migliore di interventi. Secco, documentato, argomentato. Un modello. Congratulazioni all’autore (e sommesso invito all’imitazione per quelli che seguiranno –sì, lo so, che non in tutti campi è possibile, ma, provarci sarebbe comunque utile).