Tutte le università sono impegnate nella ripresa delle attività didattiche condizionate dall’epidemia, dalle misure di sicurezza e, soprattutto, dall’opzione fra didattica in presenza e a distanza. Non si tratta di un aut-aut: in molti casi sarà adottata una didattica mista, in cui gli insegnamenti sono tenuti in parte in aula, in parte online.
Le lezioni in presenza richiedono una rivoluzione logistica: nuove aule, distanziamento sociale, orari estesi, tempi di sanificazione. Pochissime università riescono a garantire la presenza a lezione di tutti gli studenti: la capienza delle aule è ridotta in media del 30% e le sale già sovraffollate degli atenei italiani si sono ulteriormente ristrette.
Per questo, i Rettori italiani hanno deciso di garantire la trasmissione delle lezioni in rete, in modo che gli studenti che non accedono alle aule possano seguirle da remoto. Ma come si determina chi entra in classe e chi no?
È un problema di criteri di giustizia, in chiave molto pragmatica. Un approccio liberale, che qui sembra appropriato, opta per lasciare totale libertà agli studenti: chi vuole va in aula. Chi sceglie la distanza non è discriminato, perché opera una scelta individuale.
Molte università riferiscono che l’esperienza a distanza durante la chiusura è stata ragionevolmente valida, benché la didattica in presenza offra una maggiore partecipazione e condivisione. La differenza non è tale da creare diseguaglianze importanti fra gli studenti che optano per l’una o per l’altra.
Si creano però così almeno due scenari:
- (poco probabile) tutti o quasi gli studenti scelgono la presenza, ma l’aula ridotta non può contenerli tutti;
- (molto probabile) molti studenti scelgono la distanza (in parte, per comodità) e il docente si trova a far lezione alla presenza di quattro-cinque allievi.
Nel primo caso, bisogna regolamentare gli accessi. A tale scopo, alcune università si sono dotate di applicazioni di prenotazione dei posti: tecnologicamente sofisticato, ma efficace. Nel secondo, la presenza risulta di fatto vanificata e non ha molto senso costringere i docenti a insegnare in aule vuote.
Dicevo che quest’ultimo è lo scenario più probabile, ma è anche la sfida più profonda all’insegnamento universitario: può anche darsi che i docenti si trovino all’inizio in aule poco frequentate, con molti studenti connessi da casa.
Ma qui si parrà la lor nobilitate: un insegnamento coinvolgente, che stimola alla condivisione del sapere invece che alla mera trasmissione di informazioni, un uso ben preparato e congegnato dell’interazione diretta, pur senza discriminare chi è a distanza (si può sempre attivare il microfono e intervenire) susciterebbe il desiderio di tornare a frequentare gli spazi accademici, di sfidare pigrizia e trasporti per poter esserci e cogliere le sfumature, le occasioni e i momenti informali, la socialità spontanea e le discussioni estemporanee che sono il lievito dell’esperienza universitaria.
L’accademia non è un divano di casa. Ma perché torni a essere vita activa, ora che molti si sono abituati al sofà, la responsabilità è principalmente di noi docenti.
La didattica a distanza ci ha costretto a modificare il nostro modo di insegnare e abbiamo imparato molto: lezioni più precise, più materiali disponibili, più sollecitazioni per avere riscontri dagli studenti. Lo stesso deve avvenire ora per la didattica in aula, che dobbiamo reinventare: fare ciò che solo in presenza si può fare bene, ricreare la comunità di studio che è l’università, sfruttare la scioltezza dell’interazione per far sentire i limiti della didattica da remoto, ma senza denigrarla e continuando anzi ad adottarla per alcune parti dei corsi, quelle che meno richiedono i vantaggi della condivisione.
La ripresa non sarà una questione di spazi fra le sedute, orari e sanificazione: sarà una grande ricerca sull’essenza dell’insegnamento.
Marco Tarchi dice
Non credo che si possa generalizzare su vantaggi e svantaggi delle diverse forme di didattica. Personalmente, non ho visto particolari vantaggi in quella a distanza: né sulle sollecitazioni alla partecipazione alle lezioni, né sulla “precisione” (?) delle lezioni. Ho visto invece alcuni svantaggi, fra cui quello – avvertito da vari colleghi – di non poter capire se, dietro le sigle che compaiono nella stragrande maggioranza dei casi sul video, coloro che tengono la telecamera spenta ci sono oppure no, seguono oppure no. Per qualcuno la didattiva a distanza sarà di ausilio: per altri certamente no. E la virtualizzazione del rapporto docente-studente (dire “discente” forse potrebbe essere giudicato politicamente scorretto…) crea danni non solo all’università, ma anche alla società, istigando la creazione di monadi.