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Liberalismo e utopia

12 Settembre 2019 di Michele Marsonet Lascia un commento

Si può certamente ammettere che lo scopo ultimo della ricerca (scientifica e non) è il raggiungimento della verità. Ma, naturalmente, noi sappiamo che ‘tendere’ alla verità non significa raggiungerla. William James, infatti, afferma che il ‘vero assoluto’ è soltanto il limite ideale verso cui noi crediamo che le nostre teorie stiano attualmente convergendo, il che comporta attribuire alle verità da esse identificate un carattere semplicemente relativo. Questo significa che la verità è «qualcosa di essenzialmente legato al modo con cui un momento della nostra esperienza può condurci verso altri momenti a cui sarà valsa la pena di essere condotti».

Considerazioni di questo tipo costituiscono in effetti le premesse necessarie per adottare una visione fallibilista e ipotetica dell’idea di ‘utopia’. Come accade nella scienza, anche nella vita quotidiana ipotesi e congetture sono lo sfondo sempre incerto e mutevole a partire dal quale si sviluppano le nostre azioni, e la dimensione del possibile rappresenta la chiave che ci consente di intrattenere un rapporto con la realtà circostante. La razionalità, più che in termini di assolutezza, va vista come la capacità di capire come gli eventi potrebbero essersi svolti nel passato – o potrebbero svolgersi nel futuro – in conseguenza del nostro privilegiare un certo comportamento piuttosto che un altro.

Non è difficile, partendo da tali premesse, accorgersi che al termine ‘utopia’ può essere attribuita un’accezione aperta e dinamica, diversa da quella corrente e più diffusa. Si tratta di un’utopia intesa come apertura alle infinite possibilità che ci fornisce il nostro rapporto con il mondo, rapporto che non è mai univoco, in quanto basato sull’interrelazione dialettica che gli esseri umani intrattengono con la realtà. È, questa, l’utopia intesa come ideale regolativo. Occorre sempre rammentare che il liberalismo correttamente inteso è metodo più che dottrina, e quando si parla di storicizzazione del liberalismo è al metodo, e non alla dottrina, che ci si riferisce.

L’abbandono di ogni punto di vista privilegiato si deve al fatto che siamo in pratica costretti a essere tolleranti quando si pensi a quante visioni del mondo ci sono state e quanti pochi argomenti si possono fornire per scegliere tra loro. Dal momento che una società può definirsi liberale solo ammettendo che ogni ideale può essere raggiunto con la persuasione invece che con la forza, e con la riforma piuttosto che con la rivoluzione, una ridescrizione della storia recente secondo le linee prima menzionate può presentare interessanti occasioni di riflessione.

Come accade nell’analisi della scienza condotta dall’epistemologia post-empirista, acquista dunque valenza essenziale la considerazione del fattore-tempo. La filosofia non può essere il tentativo di avere accesso a un mondo in cui nulla può cambiare, bensì la creazione di immagini possibili di un futuro sempre in divenire, nel quale non v’è alcuna ragione di pensare che il flusso del tempo si arresterà per dar luogo a un ordine finalmente stabile e perfetto.

Invece di chiederci che cosa siamo dovremmo appurare che cosa potremmo cercare di diventare, ed è proprio tale spostamento di interesse a fornire le basi di un’utopia più debole di quella tradizionale. Vanno abbandonati i tentativi platonici di giudicare la società e la tradizione culturale in cui viviamo da un punto di vista esterno, il quale può essere giustificato soltanto basandolo su un concetto di verità che sia ineluttabile e impermeabile al cambiamento. Ma ciò significa, per l’appunto, prendere sul serio il fattore-tempo e privilegiare l’azione rispetto alla contemplazione, senza presupporre che la filosofia possa vantare qualche tipo di supremazia fondativa nei confronti della politica.

Va da sé che il susseguirsi delle immagini del mondo, e dei linguaggi che le esprimono, è spiegato dalla necessità del cambiamento culturale e dall’obsolescenza cui vanno incontro tutti i prodotti umani. Come afferma Isaiah Berlin, se si considera illusoria la pretesa di risolvere in modo definitivo i conflitti di valori, «[…] non foss’altro perché alcuni valori ultimi possono essere incompatibili tra loro, e che la nozione stessa di un mondo ideale in cui essi si trovino riconciliati è un’impossibilità concettuale (e non meramente pratica), allora, forse, il meglio che si possa fare è tentare di promuovere una qualche specie di equilibrio, fatalmente instabile, tra le diverse aspirazioni di gruppi differenti di esseri umani». Si potrà quindi parlare di un’immagine ‘migliore’ rispetto a un’altra, senza però scordare che tale aggettivo deve essere relativizzato a un contesto che dal flusso del tempo acquista il suo vero significato.

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