Dopo che per decenni la scienza era stata considerata una forma di conoscenza in grado di fornirci una rappresentazione del mondo neutrale e oggettiva, in tempi più recenti si è compreso che la fiducia nella possibilità di determinare un punto di vista ‘privilegiato’ in base al quale effettuare le osservazioni era mal riposta. Considerati i limiti delle nostre capacità cognitive le prospettive sono, inevitabilmente, più d’una, e occorre pertanto passare a una visione di tipo funzionale. L’abbandono del punto di vista privilegiato e assoluto comporta altresì l’introduzione del pluralismo all’interno dell’edificio scientifico, e le conseguenze di questo stato di cose sono ovviamente fondamentali ai fini dei rapporti tra scienza e società nel suo complesso.
Partendo da tali premesse, si deve notare che la scienza (e la riflessione epistemologica che a essa si accompagna) non può isolarsi dal contesto più vasto della cultura in quanto tale; se è vero che la scienza rappresenta lo strumento per indagare il mondo naturale e quello sociale, è pure legittimo affermare che essa non vive in isolamento rispetto alla società nel suo complesso. La scienza altro non è che una delle più importanti pratiche umane, e in quanto tale va giudicata sia in riferimento alla storia, sia avendo presenti le altre pratiche umane che con essa interagiscono. Vi è dunque qualcosa di errato nella razionalità semplificatrice che positivismo e neopositivismo hanno attribuito alla conoscenza scientifica: occorre tener conto della complessità del reale e delle interrelazioni che ne formano il tessuto connettivo.
Ad esempio, la tesi secondo cui l’osservazione è sempre impregnata di teoria ha prodotto, da Popper in avanti, una serie di grandi rivolgimenti nel modo di concepire la scienza. Se affermiamo che la dimensione teorica non può essere scissa da quella osservativa, e se per di più attribuiamo alle teorie scientifiche un carattere creativo, allora i ‘salti’ che spesso si verificano nella storia della scienza, le intuizioni geniali che consentono di interpretare in modo nuovo i fenomeni, si possono spiegare più facilmente di quanto non avvenga utilizzando il modello neopositivista. Ne consegue che ogni tentativo di assolutizzazione della scienza è votato alla sconfitta. Naturalmente tutto questo conduce al relativismo, ma si deve anche rilevare che ‘relativismo’ e ‘irrazionalismo’ non sono necessariamente termini sinonimi: dare spazio alla nozione di ‘ragione relativa’ significa semplicemente ammettere i limiti delle nostre capacità cognitive, traendone le giuste conseguenze. Proprio per questo, pur ammettendo che la nostra conoscenza dell’universo procede verso sintesi ampie e profonde, si deve riconoscere al contempo il suo carattere problematico. Solo questa consapevolezza può scongiurare il pericolo sempre in agguato di assolutizzare l’ambito concettuale delle teorie in base alle quali gli scienziati operano nelle varie epoche storiche.
Si è osservato che la pratica professionale della ricerca scientifica sviluppa qualità intellettuali e morali che troverebbero ottime applicazioni anche in altri campi. La prima di queste qualità è l’assenza dello spirito d’autorità. Ciò non significa che gli scienziati mettano continuamente in discussione quanto è già stato stabilito e verificato; la scienza, al contrario, procede per superamento, e non per rifiuto di quanto è stato acquisito. Ma è un dato di fatto che sul fronte della ricerca occorre fare i conti con la costante possibilità dell’errore; è a questo punto che il perfezionamento delle tecniche per rilevare gli errori è, al contempo, condizione e prova del progresso. Ne consegue che l’assenza di dogmatismo è caratteristica essenziale della ricerca scientifica. Lo studioso è libero di porre qualsiasi domanda e di correggere qualsiasi errore. Tutte le volte in cui nel passato ci si è serviti della scienza per erigere nuovi dogmi, essi si sono dimostrati incompatibili con il progresso scientifico.
Karl Popper ha affermato a tale proposito che esiste, tra la ricerca scientifica e la prassi liberal-democratica, una sorta di armonia prestabilita. La ricerca è tanto più prospera quanto più si sviluppa nel clima di libertà che le è naturale, mentre lo spirito che anima la scienza rafforza le strutture della società liberale. Al rifiuto di ogni dogmatismo, la scienza moderna unisce la pratica costante della cooperazione e del lavoro collettivo. Lo scienziato fa parte di una comunità: la sua vita quotidiana e la natura stessa del suo lavoro gli conferiscono una certa forma di saggezza. Un aspetto importante del problema dei rapporti tra lo studioso e la società è fare in modo che l’insieme dell’umanità possa beneficiare dei valori propri degli ambienti scientifici. Proprio in ciò dovrebbe risiedere l’apporto della scienza alla cultura e al progresso. Non si tratta di cosa semplice da realizzare, giacché quello che occorre comunicare non è il contenuto della conoscenza acquisita, ma l’esperienza della sua conquista, elemento che appartiene solo a chi l’ha vissuto. Vi è una differenza radicale tra il conseguimento di nuove conoscenze e l’insegnamento del risultato così come viene impartito nelle università, e nessuna tecnica pedagogica può colmarla. Un esperimento di laboratorio che si fa compiere a un allievo, sapendo in anticipo come si svolgerà, è tutt’altra cosa dell’esperimento che si tenta per la prima volta, procedendo per tentativi ed errori, al fine di strappare un segreto alla natura.
L’attività professionale degli scienziati, come quella degli altri soggetti umani, si inserisce in una struttura sociale ed è dominata dal potere politico. Anch’essi si comportano in modo diverso nei confronti di questa struttura e di questo potere, a seconda delle loro convinzioni personali e dell’educazione ricevuta. Le conseguenze delle loro scelte hanno certamente un carattere inerente alla loro attività di scienziati, nel senso che sono spesso importanti. Ma la scienza – occorre ribadirlo – non è l’unica attività sociale. Resta comunque il fatto che il ruolo crescente della scienza e della tecnologia nel mondo d’oggi moltiplica l’importanza delle scelte che lo scienziato – in quanto essere umano – è chiamato a prendere. Risulta difficile considerare lo studioso libero dalle conseguenze delle sue azioni, dal momento che esse si situano quasi sempre non sul piano della ricerca pura, ma su quello delle decisioni di carattere morale e politico. Né è convincente supporre che tutta la responsabilità per l’utilizzo delle scoperte scientifiche debba essere lasciata ai politici, dei quali gli scienziati non sarebbero che i consiglieri tecnici. Quando l’intellettuale-scienziato usa le sue conoscenze per appoggiare le decisioni del potere o per influenzarle in un modo o nell’altro, si mette nella condizione in cui la distinzione di principio tra uomo di laboratorio e cittadino cessa di essere valida. In altri termini, lo scienziato non è un superuomo: non può servire d’esempio o di guida, né trincerarsi nel suo laboratorio come in una torre d’avorio.
Occorre in ogni caso stare in guardia quando si invoca la necessità di imporre limiti alla ricerca scientifica e tecnologica. È quanto sta accadendo in questi giorni dopo il successo della clonazione di scimmie in Cina, giacché è sin troppo facile chiedersi quando toccherà a noi. E la risposta ovvia è: «presto, a meno che non vengano imposti dei limiti a scienziati e tecnologi». Sembra così facile, e invece non lo è affatto. Bisogna innanzitutto stabilire ‘chi’ è incaricato di fissare i limiti suddetti. Presumibilmente dei comitati, ma chi stabilisce la loro composizione? E quali saranno i valori cui i comitati dovranno attenersi in modo rigido, appunto per piantare dei paletti invalicabili?
È sufficiente una breve riflessione per capire che l’impresa è di ben difficile realizzazione, considerando anche quante e quali visioni valoriali oggi competono nel mondo, e quanti conflitti continuano a manifestarsi in ragione di questo fatto. Ogni volta che in passato si è tentato di stabilire dei limiti imposti dall’alto, scienza e tecnologia si sono prese la rivincita in tempi abbastanza brevi. Si pensi a Galileo Galilei, la cui abiura non impedì affatto la diffusione delle sue tesi. Certo la clonazione investe in modo diretto la visione che abbiamo costruito di noi stessi, ma tale visione è cambiata più volte in passato e continua tuttora a cambiare. In conclusione, pare ragionevole affermare che il carattere non assoluto della scienza ne determina i limiti. E, a sua volta, la presenza di tali limiti fa sì che l’intellettuale-scienziato non possa risolvere, facendo appello a criteri puramente interni, i dilemmi che impegnano tutti noi in scelte di valore. Ciò non significa disconoscere il ruolo fondamentale che la scienza svolge nella nostra attuale visione del mondo. Più semplicemente, equivale a riconoscere il carattere specificamente umano di quel particolare tipo di attività intellettuale rappresentato dalla ricerca scientifica.
jonas dice
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datafoam dice
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Dino Cofrancesco dice
ineccepibile!