L’uguaglianza fiscale si basa sul principio che chi ha di più deve dare di più. Tale asserto presuppone che sia la società nel suo complesso, per come è organizzata e per come funziona, a creare le condizioni che permettono, a chi le sa meglio sfruttare, di avere successo (che in questo caso significa ‘avere di più’). Per quanto questo ragionamento venga a volte messo in discussione, una qualche forma di progressività nell’imposizione fiscale è pressoché universalmente accettata.
Si tratta allora di comprendere cosa significhi ‘avere di più’. Che cosa ha più degli altri chi ‘ha di più’? Qui le opinioni divergono drasticamente. Beni o reddito? Periodicamente il dibattito su questo tema verte attorno alla opportunità di tassare la proprietà della prima casa. Si contrappongono tre schieramenti: chi si oppone, chi vuole un’imposta solo sulle abitazioni di lusso e chi chiede una tassazione a prescindere dal valore dell’immobile.
È ferma opinione di chi scrive che l’equità fiscale reclami una tassazione esclusiva sul reddito e quindi, nel caso di specie, che qualsiasi imposta sulla prima casa (e più in generale sulla proprietà) sia fermamente iniqua, anche per le abitazioni cosiddette di lusso. Ecco perché.
Il funzionamento stesso della nostra società si basa sul presupposto che tutti abbiano un domicilio. Senza disquisire di diritto naturale e/o costituzionale, il domicilio, che sia o meno di proprietà, è necessario anche a fini fiscali. Le addizionali comunali e regionali presuppongono che il contribuente risieda in un determinato luogo. Ergo, che tutti abbiano un’abitazione serve al sistema per funzionare. Per questo togliamoci subito di torno argomentazioni tragicamente buffe e surreali, basate su considerazioni del tipo ‘la tua casa occupa spazio, rovina il panorama, richiede servizi, ecc. ecc.’, che potrebbero venire accettate solo se provenissero da chi vive per strada. Di proprietà o in locazione, è la necessità dell’abitare che causa tali esternalità, non certo la proprietà.
La proprietà, però, si dice, genera un reddito, meglio, una rendita che è quindi giusto tassare. Tale rendita è calcolata come la differenza tra il prezzo di mercato di un immobile e il costo di produzione dello stesso. Ovviamente questa differenza può essere positiva o negativa a seconda dell’andamento del mercato e dell’usura del bene. Chi chiede l’inserimento di una imposta sulla prima casa chiede che, con periodicità costante, i proprietari dell’abitazione in cui vivono paghino una quota in relazione ad un valore che però è solo ipotetico, in quanto, fino al momento della vendita, non è dato sapere se il prezzo (di mercato o di vendita) sarà effettivamente superiore al costo di produzione. In maniera meno tecnica, la prima casa, quando e per il periodo in cui è destinata ad abitazione principale, non genera alcuna rendita. Semmai, rappresenta una spesa. Riparazioni, ammodernamenti, tariffe e servizi fanno sì che l’abitazione costituisca uno degli elementi che pesano di più nel bilancio di una famiglia. Come dicevamo, la casa, anche la prima, genera una rendita al momento della vendita. In questo caso, però, è già prevista una tassazione sulla differenza tra il prezzo di vendita e il prezzo di acquisto, se questo è positivo. Nel caso invece questo fosse negativo, come può capitare in caso di shock del mercato, di deterioramento dell’immobile o di perdita di valore dello stesso dovuta, per esempio, alla costruzione di una discarica nelle immediate vicinanze, il proprietario non dovrebbe pagare nulla. Ma allora perché avrebbe dovuto farlo, anno per anno, per il solo fatto di possedere l’immobile in cui ha deciso/si è trovato a vivere? Perché lo stato dovrebbe chiedere ogni anno ai possessori della prima casa, più di tre quarti degli italiani, di strizzare le pareti della loro abitazione per vedere se trasuda qualche centinaio di euro?
Occorrerebbe inoltre non sottovalutare un altro fatto. Non è detto che chi acquista una casa oggi, sia in grado di sostenere un’imposta sul suo possesso domani. E questo vale anche per gli immobili di lusso. Mettiamo il caso che un onesto lavoratore abbia, col frutto dei suoi sacrifici, acquistato un immobile destinato a sua abitazione principale. Se lo stesso perdesse il lavoro, potrebbe, in breve tempo, non essere più in grado di pagare la tassa di proprietà e, in condizioni nemmeno troppo particolari, potrebbe non riuscire a vendere l’immobile. Ci si troverebbe quindi in una situazione in cui un cittadino senza reddito dovrebbe pagare un’imposta su una rendita (molto) ipotetica. Al contrario delle proprietà, i redditi possono sempre e comunque essere tassati. E la ragione è semplice: chiunque può acquistare un bene quando ha le risorse per farlo, ma niente e nessuno può garantire che la stessa persona abbia le risorse, per tutto il periodo in cui permane in possesso del bene, per pagare un’imposta sulla proprietà. Chiunque abbia un briciolo di razionalità cercherà di prendere decisioni sulla base di considerazioni sulla situazione attuale e cercando di prevedere, per quanto possibile, come la situazione potrebbe evolvere in futuro. Ma il futuro è, per sua stessa natura, imprevedibile. Nessuno è in grado di stabilire, al momento dell’acquisto della prima casa, se sarà in grado, in futuro, di pagare l’imposta su quel bene. Imposta che peraltro può venire modificata o innalzata a dismisura. Per questo la tassazione delle proprietà genera un introito per lo stato incerto e ingiusto.
E qui veniamo all’invidia di una certa sinistra. Il dibattito sulla tassazione della prima casa assomiglia sempre più spesso ad una lotta di classe. Specialmente tra i giovani, avere una casa è ormai diventato un lusso che pochi possono permettersi. La crisi economica, il lavoro precario che non permette di accendere un mutuo, gli stili di vita che privilegiano il consumo sul risparmio, hanno creato una lotta settaria tra gli ‘have’ e gli ‘havenot’ che non si vedeva dai tempi della rivoluzione industriale. Nei dibattiti tra il pro e il contro, i favorevoli rivendicano la loro posizione come una misura di equità, mentre i contrari fanno leva sul merito. I presupposti sono da un lato fortemente anti-liberali, dando per scontato che gli ‘have’ non siano partiti dalla medesima situazione, ma che abbiano goduto di ingiusti privilegi, mentre i contrari reclamano il loro diritto a scegliere liberamente per cosa sacrificarsi, senza poi dover pagare per tutta la vita, anno per anno, per il solo fatto di aver raggiunto un obiettivo che chi altrettanto liberamente decide di non perseguire non ha raggiunto. Paradossalmente, come in una moderna parabola del figliol prodigo, se due figli ricevessero la stessa cifra in eredità, ed uno decidesse di dissiparla in prostitute, alcool e gioco d’azzardo, mentre l’altro decidesse di acquistare un’abitazione, sarebbe il secondo a dover pagare per tutta la vita per la sua (ad avviso di chi scrive più sana) scelta. Il primo, invece, potrebbe paradossalmente ricevere anche un sussidio sociale.
Passare da una tassazione sulle persone (redditi) ad una sulle cose (beni) è dichiarare il fallimento dello stato nella riscossione. Chiedere a chi ha un bene di pagarvi ulteriori imposte (oltre a quelle già pagate al momento dell’acquisto), significa dare per scontato che il denaro utilizzato per acquistare quel bene venga, almeno in parte, da lavoro nero o da fonti non lecite. Per questo, uno stato liberale dovrebbe essere in grado (perché di mancanza di capacità si tratta) di abolire qualsiasi forma di imposta sulla proprietà per lasciare libero ciascuno di decidere cosa acquistare, senza temere future e ingiuste imposizioni. Nessuno dovrebbe trovarsi a pagare per una preferenza, un gusto personale: che si tratti di orologi di lusso, di automobili o di castelli, poco importa. Una buona e progressiva tassazione sui redditi, prelevata nel momento in cui quei soldi esistono, quando qualcuno li guadagna ed è effettivamente in grado di contribuire al bilancio dello stato, è tutto quanto serve a rendere equa la fiscalità (escludo qui il tema delle tasse di successione che meriterebbe un ragionamento a parte). Tutto il resto, oltre a potersi rivelare, in determinate situazioni, impossibile da riscuotere, è sintomo di una concezione del ruolo dello stato, nel migliore dei casi, anti-meritocratica, nel peggiore, vendicativa.
gianfranco pasquino dice
si direbbe che la scrivente possegga una prima casa, ma anche che intenda fare con i suoi soldi quello di cui si vantò il grande giocatore nordirlandese George Best: “ho speso moltissimo in alcool, auto, donne; il resto del denaro l’ho sprecato”.
Marta Regalia dice
Non pro domo mea… È proprio il caso di dirlo!
Dino Cofrancesco dice
C’è ancora qualche liberale in Italia. E’ consolante.