Sulla necessità di una politica estera, di sicurezza e di difesa europea
«Lo scetticismo ci aiuta a vivere; il cinismo a morire». Roberto Gervaso
Lo scetticismo, nella sua dimensione filosofica e legata al dubbio, ha indubbiamente portato più vantaggi che svantaggi alla specie umana. Nella sua contrapposizione alla fede cieca e acritica, lo scetticismo ha sempre fornito stimolo e motivo di crescita spirituale ed intellettuale. Dovrebbe bastare quindi solo questo a nobilitare gli scettici più noti di oggi, coloro i quali si dimostrano critici verso il processo di integrazione europea o l’idea d’Europa tout court.
È vero che i punti di contatto tra l’euroscetticismo (soprattutto italiano) e la scuola di Pirrone sono talvolta labili, ma è altrettanto vero che alcuni di essi rappresentano punti di vista utili e assolutamente costruttivi. Nel dibattito contemporaneo sull’Europa, tuttavia, c’è una scuola che si va affiancando a quella scettica, ossia quella cinica. Anche qui la tradizione di Diogene è nobile ma gli esiti non sempre felicissimi, soprattutto quando si tratta di trovare una pars construens ad un processo o ad un pensiero politico. Il tema di stretta attualità, principalmente a causa della recente riscoperta di quel crocevia montagnoso chiamato Afghanistan, è quello dell’opportunità o meno di lavorare per la creazione di un esercito europeo. L’idea, si dice, è buona sulla carta quanto irrealizzabile nella pratica: gli europei sono troppo diversi tra loro per amarsi e morire gli uni per gli altri, e l’interesse nazionale si mostra ancora troppo forte ed imperativo nel calcolo politico. Ovviamente, c’è una parte di verità in queste affermazioni.
Ad oggi nessuno, nemmeno l’europeista più convinto, può aspettarsi che la ‘generazione Erasmus’ sia pronta a mostrare entusiasmo per la partecipazione a delle azioni militari (cosa che tra l’altro riguarda, con buona pace di un presunto ‘puro sentimento’, lo stesso quadro nazionale). E ancor meno ci si può illudere sullo stato di preparazione al conflitto di popoli fondamentalmente disabituati a curare una loro dimensione di sicurezza esterna, quali sono quelli europei contemporanei, o semplicemente sulla loro capacità di sopportare la mesta conta di giovani in divisa che non torneranno più. Lascia pensare, in questo caso, la scarsa resilienza mostrata dagli stessi Stati Uniti in tutti i conflitti che li hanno visti in difficoltà in teatri non vitali, come il Vietnam, la Somalia, e da ultimo l’Afghanistan.
L’opinione pubblica americana non è quella europea, ma pur essendo più preparata a sopportare il costo, economico ed umano, di una politica estera globale si è dimostrata più volte incapace di gestirne le conseguenze. D’altro canto, è vero anche quanto si dice sulla politica estera nazionale e la sua centralità; ad oggi è difficile ravvisare serie crepe nell’esercizio della funzione sovrana delle nazioni relativa alla gestione dei rapporti tra loro e alla cura delle forze armate (e dell’industria nazionale della Difesa). Qui veniamo però ai limiti del cinismo e alla botte che permetteva a Diogene solo di vedere una singola porzione di cielo e mai la terra.
Il primo elemento della terra che gli euro-cinici ignorano, forse volutamente, è l’epoca storica nella quale viviamo. Questo periodo è contrassegnato da uno storico cambio di passo nella politica estera dell’unica super potenza globale, da un allontanamento dall’Atlantico a favore del Pacifico e una crescente tentazione di auto-ridimensionamento (retranchement). Questo cambio di direzione non prevede ovviamente un abbandono da parte di Washington del bamboccione europeo, quanto di una spinta ad uscire di casa e provvedere al suo sostentamento, si pensi all’annoso problema del finanziamento della Nato e alle accuse di insufficiente spesa europea per la Difesa. Certo, come tutti i tutori – soprattutto quelli autodesignatisi come tali – anche gli Stati Uniti vogliono che i governi democratici del vecchio continente imparino a cavarsela da soli senza trovarsi brutte compagnie o iniziare malsane competizioni con la famiglia d’origine, ma il messaggio arrivato nel corso delle ultime tre presidenze è chiaro e punta alla porta.
Il secondo elemento è relativo al dramma securitario che già vive ora l’Europa. È verissimo e inoppugnabile che la preparazione a sopportare il peso di un sacrificio economico ed umano va messa alla prova, ma è altrettanto evidente che il prezzo da pagare per l’attuale mancanza di sicurezza è facilmente dimostrabile. I disastri umanitari che stanno avendo luogo nel mondo e finanche nel nostro vicinato creano già destabilizzazione economica e sociale agli europei, e il conto delle giovani vittime degli attentati degli ultimi anni si distingue da quello di potenziali perdite militari solo perché inconsapevole ed inerme.
Il terzo elemento è dato dall’emergenza COVID e dalla capacità di resilienza sociale alle emergenze emerse negli ultimi due anni. Sotto questo punto di vista si può notare una certa robustezza dimostrata dagli europei nel seguire delle politiche estremamente dolorose, come il lockdown, per il benessere comune. A differenza di altre parti del mondo, l’Europa ha implementato le stesse politiche anticontagio, con tempistiche simili, e reazioni sociali pazienti e coese. Questo è un dato che va sottovalutato e fa ben sperare per il futuro di un popolo, quello del Vecchio continente, per il quale in tanti hanno già incautamente suonato le campane a morto anzitempo.
L’ultimo elemento è quello più vicino proprio allo scetticismo e quindi ad una lettura critica di quanto sta avvenendo oggi in Europa. Lo scetticismo verso l’inesistente politica estera europea e l’altrettanto inesistente ed inefficace politica estera nazionale (a meno che non si consideri efficace svendere asset alla Cina o ritirarsi di fronte alla jihad in Mali) dovrebbe interrogarci proprio su quali siano le alternative alla catastrofe che è all’orizzonte. Vi è chiaramente un problema dato dalla contraddizione tra il fallimentare esercizio nazionale di una funzione sovrana – quella relativa alla politica estera, alla difesa e alla gestione, uso e armamento degli eserciti – e un contesto che richiederebbe, per economie di scala e nuove emergenze, la creazione di una politica estera, di sicurezza e di difesa europea in cui si decida a maggioranza, di idonee strutture amministrative e di forze armate dell’Unione.
Fare riferimento al rapporto esclusivo tra l’appartenenza nazionale e la disponibilità al sacrificio (disponibilità che, come insegna la storia della resistenza, è connessa a molteplici e mutevoli sentimenti) in un contesto del genere significa essere rimasti all’inizio del XX secolo e riprodurne le logiche insostenibili. Lo scetticismo dovrebbe quindi essere il sano antidoto all’euro-cinismo e portarci alla conclusione che una dimensione di politica estera, di sicurezza e difesa europea è sempre più necessaria. Non averla ha un prezzo elevatissimo che i cittadini europei attualmente pagano e che non dovrebbero più tollerare né giustificare.
Giuseppe dice
La dimensione di politica estera, di sicurezza e difesa europea è particolarmente necessaria per le azioni di mantenimento e rafforzamento della pace
Ferdinando Mach dice
Senza una Costituzione Europea le tre necessità falliscono , perchè prive della legittimazione diretta popolare data da uno Stato Europeo .
Occorre avere il coraggio di riprendere la via maestra , l’unica capace di battere i nemici dell’Unità Europea .