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L’interminabile guerra civile di Nicola Lagioia

28 Aprile 2022 di Dino Cofrancesco 1 commento

Nell’articolo Mattarella, Fenoglio e la Liberazione («La Stampa» del 23 aprile), Nicola Lagioia scrive che rischia di diventare divisiva una data, il 25 aprile, simbolo della rigenerazione dell’Italia, e della ritrovata consapevolezza della dignità umana, nel rifiuto di ogni sopraffazione totalitaria e di ogni razzismo. «Abbiamo assistito troppe volte al triste spettacolo offerto da chi ha affermato di non sentirsi a proprio agio con questa ricorrenza, di non riuscire a festeggiarla. La scusa dichiarata è il timore di finire sotto l’ombrello della sinistra. Di fatto, si tratta invece dell’incapacità di definirsi con fermezza antifascisti. Ma dirsi antifascisti e dirsi italiani, oggi, è o dovrebbe essere la stessa cosa».

Come aveva ragione l’Uomo Qualunque! «Dirsi fascisti e dirsi italiani, ormai è la stessa cosa» proclamavano ieri Benito Mussolini e il suo filosofo Giovanni Gentile. Cambiano le camicie ma la pretesa di imporre agli italiani la stessa divisa (nera o rossa) è ‘immarcescibile’. Forse nella disprezzata Italietta umbertina e giolittiana, quando un repubblicano poteva essere nominato senatore del Regno, libertà intellettuale e non conformismo non erano ancora monete rare come nel nostro tempo.

Comunque vorrei spiegare a Lagioia che il disagio di cui parla non è una ‘scusa’ ma ha profonde motivazioni, pur se per lui incomprensibili. Norberto Bobbio scriveva che la Resistenza italiana è stata: a) una guerra di liberazione contro lo straniero, b) una rivolta contro la dittatura, c) un progetto di rigenerazione morale e intellettuale degli Italiani. Ebbene, piaccia o no a Lagioia, solo i primi due aspetti possono dirsi non divisivi, il terzo, invece, rinvia a una democrazia progressiva, a una liquidazione del passato fascista e prefascista che può essere (legittimamente) l’ideologia di una parte politica ma non può diventare un idem sentire. Tant’è vero che nel 1948 la maggioranza degli elettori votarono per la DC e per alcuni partiti minori proprio perché non volevano essere ‘rieducati’ e ‘defascistizzati’ da comunisti, socialisti e azionisti. In realtà, la cd ‘democrazia progressiva’ si basava su una Grande Menzogna, la ‘vulgata antifascista’, denunciata da storici come Renzo De Felice e saggisti come Giampaolo Pansa. Per la vulgata, quello fascista era un regime imposto alla stragrande maggioranza degli Italiani da mazzieri al servizio dei ‘poteri forti del tempo’, aveva rovinato il paese sotto il profilo etico, economico e culturale, non aveva seminato che rovine e, alla fine, alleandosi col Terzo Reich, aveva concluso ingloriosamente il ciclo iniziato con la Marcia su Roma.

La verità è che le colpe della fine della democrazia ricadono su tutti gli italiani: sulle deboli classi politiche, che non seppero imporre l’ordine a un paese lacerato dalla guerra civile, sul sovversivismo delle sinistre («con le budella dell’ultimo prete impiccheremo l’ultimo re»), sulla volontà di ampi strati del proletariato di instaurare il modello sovietico («e noi faremo come la Russia…»), sull’incapacità di nobilissime figure come Luigi Sturzo e Filippo Turati di trovare un accordo in grado di salvaguardare le libere istituzioni. Per aver posto fine all’anarchia, il fascismo godette di un ampio consenso di massa, dell’appoggio di una parte non mediocre dell’intellighentzia nazionale, di un prestigio all’estero di cui non avevano goduto i precedenti governi, testimoniato dall’interesse per le opere del regime mostrato da statisti come F.D. Roosevelt e W. Churchill. Che la Guerra d’Etiopia, il sostegno alla Spagna di Francisco Franco, le infami leggi razziali, l’alleanza con Hitler – per non parlare della fine delle libertà statutarie – abbiano segnato la sua ingloriosa fine è un fatto. Ma è innegabile che meritino rispetto quanti, sbagliando, lo sostennero in buona fede fino alla fine (v. i ricordi del repubblichino Roberto Vivarelli – divenuto poi l’erede spirituale di Gaetano Salvemini – che furono oggetto di una fatwa antifascista). Per Lagioia, come per Umberto Eco che parlava di fascismo eterno (Ur-Faschismus), il fascismo è sempre vivo e vegeto e oggi Putin ne costituirebbe un esempio da manuale.

Sono fascismo, infatti, l’esaltazione del nazionalismo, il ricorso alla violenza per risolvere le controversie, la persecuzione delle minoranze, la riduzione delle donne in uno stato di minorità, l’uso strumentale della religione: il fascismo, insomma, come incarnazione del Male assoluto. Che un figuro come Putin, ‘regolarmente iscritto al Partito’ (per citare Woody Allen), alto funzionario del KGB, faccia pensare al Führer e non a Stalin, all’invasione della Polonia e non alle Fosse di Katyn, la dice lunga.

In edicola si può acquistare il libro di Leo Valiani, Tutte le strade conducono a Roma del 1947 (Ed. «Corriere della Sera» con testi introduttivi di Antonio Carioti e Andrea Riccardi). Valiani, divenuto poi uno dei maggiori storici del secondo dopoguerra, come rappresentante del Partito d’Azione nel seno del Comitato di Liberazione Nazionale Alta Italia, volle e firmò la condanna a morte di Benito Mussolini. Finita la guerra, però, dedicò le sue memorie A Duccio Galimberti; per tutti i Caduti della nostra parte e dell’altra. È lo spirito di questa dedica che avrebbe dovuto ispirare l’antifascismo ma i suoi chierici odierni sembrano ritenere che «finché c’è guerra civile c’è speranza».

resistenza partigiana

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Commenti

  1. Giuseppe IERACI dice

    28 Aprile 2022 alle 22:58

    Concordo. Oggi, tutto ciò che non è conforme al “democraticismo” (come ideologia in cui ormai si è annacquato tutto: dal liberalismo al socialismo, dal cattolicesimo sociale al populismo moraleggiante) è bollato come “fascismo”. Il problema è che questi ben pensanti neanche sanno cos’è la democrazia e quando gliene sveli il vero volto (competizione aperta per il potere, ricerca del consenso, mobilitazione della partecipazione) che fanno? Ti danno del fascista!

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