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L’involuzione sovranista fa male all’Europa (e al mondo)

22 Maggio 2017 di Giovanni Ferri 1 commento

Il sollievo che ci ha regalato Emmanuel Macron sconfiggendo Marine Le Pen durerà poco. Torneremo subito a confrontarci con questa fase convulsa della storia in cui stanno tramontando i vecchi assetti senza che si intravedano quelli nuovi. Le grandi incertezze con cui fare i conti vanno dal lavoro e la salute, alle crescenti disuguaglianze, ai flussi di migranti, ai problemi dell’ambiente. Sono tutte questioni che non si prestano a soluzioni nazionali, tantomeno per Paesi piccoli.

Però soffiano da più parti venti nazionalisti o, come ora si dice, sovranisti. È naturale che, siccome l’incertezza deriva in specie dalla globalizzazione, rafforzare i confini nazionali paia una via d’uscita. Ma l’idea che «la globalizzazione ha causato i problemi, quindi rimuoverla li risolverà» è un sillogismo errato. Anziché parte della soluzione, ciò rischierebbe di essere parte del problema, aggravandolo.

Le due potenze del dopoguerra, Stati Uniti e Russia, difficilmente avranno un ruolo propulsivo. La Russia è intenta a riaffermare la propria sfera di controllo sull’Europa orientale, fino a spingersi al Mediterraneo. Gli USA vivono un periodo confuso in cui, da un lato, si disimpegnano dal ruolo di guida politica mondiale e, dall’altro, paiono decisi a riaffermare la loro influenza su un piano militare.

Tra le nuove potenze, fino a qualche anno fa si parlava molto dei BRIC (Brasile, Russia, India e Cina). Ma di recente sono emerse difficoltà, almeno economiche, sia per il Brasile che per la Russia ed era chiaro fin dall’inizio che non c’erano i presupposti perché quella somma di Paesi diventasse un vero soggetto politico. E può darsi che l’acronimo BRIC, creato a inizio millennio da Goldman Sachs per accattivare gli investitori, cada presto in disuso. Restano l’India e, soprattutto, la Cina che avranno crescente peso sul proscenio mondiale. E confrontarsi con giganti da circa 1,3 miliardi di abitanti l’uno è sconsigliabile per Paesi piccoli. Quindi, se le istanze sovraniste ci facessero tornare all’Europa divisa, sarebbe un problema non da poco.

Del resto quali sono i confini nazionali che contano? Quelli degli Stati definiti tra ‘800 e ‘900, o quelli di un’Unione Europea che, pur incompleta e imperfetta, ha fatto grandi passi in sessant’anni? Mi piace pensare i popoli liberi di autodefinire i loro confini, ma qual è oggi la nostra identità nazionale? Nel suo Marzo 1821 Manzoni la rappresentava «Una d’arme, di lingua, d’altare, di memorie, di sangue e di cor». Ebbene oggi l’UE, pur mancando di un suo esercito, ha una lingua condivisa (l’inglese, a parte i tatticismi di Junker per negoziare meglio la Brexit), libertà di culto ovunque, storia condivisa, è tutta più o meno meticcia.

Quel che più conta, però, è il «cor», cioè i valori di fondo. E i valori degli europei (continentali) sono diversi da quelli angloamericani. I secondi sposano un modello individualistico ove ciascuno ha ciò che si merita, il mercato domina in assoluto ed esigua è la solidarietà. Gli europei vedono invece la società come più complessa, fatta di individui e forme sociali intermedie, e pensano che di rado ciò che un individuo possiede sia solo frutto delle sue capacità e del suo impegno. Perciò, in Europa il mercato non può essere l’unico dominatore e ampia dev’essere la solidarietà ai più deboli (piccoli, anziani, malati e ambiente, che è la ricchezza delle generazioni future). Non a caso, ogni Paese UE in modi diversi, con interventi affidati più al pubblico (es. Paesi scandinavi) o più ai corpi sociali intermedi (es. economia sociale di mercato tedesca), assicura tale solidarietà.

Se qualcuno, per vantaggi politici immediati, provoca il distacco del proprio Paese dall’Unione, quel Paese diventa meno capace – e non più capace – di salvaguardare i propri valori di fronte a una globalizzazione basata solo sul mercato. Se si tratta di un grande Paese, il danno ci sarà anche per chi resta in un’Unione indebolita. Perciò, il sovranismo è una sindrome che dovremmo curare con più Europa, anziché rifugiandoci in confini che non hanno più il senso di un tempo. In un modo o nell’altro, la globalizzazione senza governo che abbiamo conosciuto dovrà cambiare, per via del disimpegno degli Stati Uniti e del peso di Cina e India. Per contare a quel tavolo che ridefinirà le regole – e poter così affermare i propri valori – è meglio essere parte di un’Europa forte, magari migliorata, che non esservi neanche invitati.

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Commenti

  1. Dino Cofrancesco dice

    23 Maggio 2017 alle 15:07

    Giovanni Ferri rispolvera una vecchia tesi di Fernand Braudel. A distinguere l’Europa dall’area anglosassone sarebbero i valori di solidarietà, contrapposti all’individualismo mercatista anglo-americano.Già ma chi garantisce,poi, quei valori? L’Europa, com’è, ne ha reso difficilissima l’attuazione, stritolando i paesi deboli—la Grecia—creando fasce di povertà dovunque, abbattendo le torri medievali della classe media. I sovranisti sbagliano (anche a mio avviso) ma come si fa a ignorare che sottolineano problemi reali contro le bolle di sapone degli entusiasti dell’euro, degli europeisti azegliociampaioli ,monti-prodiani e giavazziani e contro i clercs delle scienze politiche organici all’establishment italo-europeo?

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