Dagli anni di Tangentopoli, e per molto tempo, l’autorappresentazione prevalente nel nostro Paese, il racconto egemone di ciò che esso era o credeva di essere, ha avuto a che fare con la corruzione. I soggetti negativi, in questo discorso, erano evidentemente i protagonisti degli scandali che alimentavano (e alimentano) le cronache: funzionari pubblici, imprenditori, faccendieri, politici. La cosiddetta antipolitica non è altro, in fondo, che una versione di questa rappresentazione diffusa che attribuisce gran parte dei guai del Paese a una minoranza di corrotti, identificata più o meno in blocco con il ceto politico: spazzato via questo, è il sottinteso neppure troppo nascosto, tutto o quasi tornerebbe a posto.
Si capisce perché una rappresentazione del genere abbia avuto successo: è servita ad assolvere in blocco un’opinione pubblica che spesso non si distingueva per senso della legalità e rispetto delle norme. Ma è evidente che si tratta anche di una rappresentazione che convince poco, appunto per l’idea che sembra sorreggerla: quella di una società civile sostanzialmente immune dai mali addebitati all’Italia ufficiale. A volte, anzi, sembra vero il contrario: cioè che la politica ha dei comportamenti non commendevoli per seguire la pressione dei cittadini (si veda il caso recente del consiglio comunale di Licata, che ha sfiduciato il sindaco per la sua decisa opposizione all’abusivismo edilizio).
Punta l’attenzione sui mali della società prima che su quelli della politica l’ultimo numero della rivista «Paradoxa» (Nova Spes), curato dal politologo Gianfranco Pasquino, che affronta un tema classico della riflessione sull’Italia, quello della nostra scarsa cultura civica. Al centro del fascicolo sta l’idea che quest’ultima non sia un fattore soltanto individuale, ma risulti invece tanto maggiore ed effettiva quanto maggiore è il capitale sociale di un Paese, vale a dire quanto più sono sviluppate le reti di relazioni sociali basate sulla reciprocità e la fiducia.
È anzitutto la ricchezza delle associazioni esistenti in una società che dovrebbe favorire questo sistema di relazioni. Ma le associazioni che contribuiscono al capitale sociale di un Paese sono unicamente, secondo una distinzione utilizzata dal politologo americano Robert Putnam e ripresa nel fascicolo di «Paradoxa», quelle che puntano a costruire ponti piuttosto che a innalzare muri. Le associazioni del primo tipo (bridging) favoriscono infatti le forme di interazione e cooperazione, la diffusione nella comunità di legami di solidarietà e sentimenti di fiducia reciproca. Quelle del secondo tipo (bonding) sviluppano invece dei legami rigorosamente limitati agli appartenenti all’associazione stessa e tali anzi da separarli dal resto della società.
Nel caso italiano — osservano i collaboratori del fascicolo di «Paradoxa», che non a caso si intitola Le società (in)civili — è lecito il dubbio che a prevalere siano purtroppo le associazioni del secondo tipo: molte categorie, dai giornalisti ai magistrati, dai docenti universitari ai funzionari pubblici, sviluppano attraverso le loro associazioni professionali delle relazioni fiduciarie rigorosamente limitate al proprio gruppo a scapito degli interessi del resto della società. Queste associazioni finiscono per produrre anch’esse un capitale sociale, ma di tipo sostanzialmente negativo, aggravando la carenza di cultura civica di cui soffre il Paese. Esse sarebbero dunque i veicoli di un «corporativismo amorale», come propone di chiamarlo Pasquino modificando il famoso concetto di «familismo amorale» coniato da Edward Banfield negli anni Cinquanta del secolo scorso.
In sostanza, è il carattere sempre positivo del capitale sociale che i vari autori mettono in discussione, soprattutto nei saggi che esaminano due casi limite, la corruzione nell’ambito della burocrazia e la mafia. Nel caso dei funzionari pubblici coinvolti in fenomeni di corruzione, è la rete corruttiva stessa a basarsi su legami di solidarietà e sul forte rapporto fiduciario che collega tra loro i vari soggetti coinvolti. Nel caso della mafia, poi, il lato oscuro del capitale sociale è ancora più evidente. L’associazione mafiosa si regge infatti sulla fiducia, che però è rigorosamente limitata agli affiliati; si fonda sul rispetto delle norme, che sono tuttavia concepite in alternativa a quelle legali che emanano dal potere statale. La mafia dunque sottrae allo Stato non solo l’impiego della violenza, ma anche la possibilità di una fiducia indirizzata alle istituzioni pubbliche.
Siamo di fronte a un caso limite, evidentemente, che però porta l’attenzione su un aspetto che — fatte salve ovviamente le enormi differenze tra il corporativismo delle associazioni professionali e l’«associazionismo» mafioso — meriterebbe d’essere approfondito: il ruolo che in un Paese come il nostro, in cui poco ci si fida degli altri e ancor meno delle istituzioni pubbliche, dovrebbe avere lo Stato nel contrastare tutte le forme particolaristiche di capitale sociale.
(«Corriere della Sera», 19.08.2017)
alberto carzaniga dice
Trovo sempre sorprendente (parlo per me) la difficoltà che sembriamo avere tutti nel guardarci allo specchio : non vediamo la nostra faccia, non la riconosciamo, vediamo quella di uno che sembra altro da noi. E così la colpa è sempre altrove, mai nostra. Di qui il grande successo di personaggi che si propongono come il nuovo, con soluzioni magiche e indefinite di problemi secolari di cui sembrano non avere alcuna reale consapevolezza. Come venirne fuori ?