Lo sciopero dei professori universitari è praticamente e rapidamente sparito dall’attenzione dei sistemi informativi italiani. È terminato, e come? Con quali risultati? È servito specificamente a cosa? Riflettendo anche su quanto ho chiesto ai collaboratori del fascicolo di «Paradoxa» (Aprile/Giugno 2017) dedicato a Le società incivili e su quanto ha scritto Stefano Semplici (Libertà e autonomia come dovere e come tentazione. I professori universitari dalla Costituzione alla VQR), ho deciso di chiedermi: se fossi ancora stato in ruolo avrei partecipato? Sicuramente no, per una ragione di ordine generale e una di ordine specifico (credo che entrambe sarebbero state condivise dai molti professori che affollarono le scarne file del Partito d’Azione). In generale, ritengo che gli scioperi che danneggiano non la controparte, ovvero i ‘proprietari dei mezzi di produzione’, ma gli utenti, in questo caso, gli studenti, siano un’arma sbagliata. Naturalmente, questa considerazione vale per tutto il settore pubblico, luogo di grande ‘corporativismo amorale’, quando gli utenti sono i cittadini che subiscono conseguenze negative, talvolta disagi di notevoli proporzioni. Temo che non siano stati affatto pochi gli studenti incorsi in una molteplicità di disagi che non derivano da nessuna loro responsabilità. Esiste un’alternativa allo sciopero in casi simili? Bisogna cercarla e trovarla, compito che i sindacalisti dovrebbero avere cominciato a svolgere tempo fa e non continuare imperterriti a usare una «forma di lotta» vecchia più di centocinquant’anni e logora assai. Per esempio, avrei suggerito ai miei colleghi di continuare a lavorare, fare esami, seguire le tesi, tenere puntualmente le ore di ricevimento (cose che, lo so per esperienza, non proprio tutti fanno con regolarità e senza eccezioni: gli studenti ne hanno di ‘aneddoti’ da raccontare, e dovrebbero farlo se non temessero di subire ‘rappresaglie’ senza ottenere benefici né per loro né per gli studenti che seguiranno) e stabilire, nobilissimo gesto di bridging per ricorrere a uno dei termini che uso nella mia presentazione del fascicolo della rivista, che la parte del loro stipendio derivante dalle giornate scioperate confluisse in un fondo di dipartimento, di Facoltà, di Ateneo al quale attingere variamente. Si potrebbero dare borse ai meritevoli; si potrebbero comprare attrezzature per laboratori e libri per le biblioteche (mettendo l’etichetta «comprata grazie allo sciopero del settembre 2017»); si potrebbe fare una migliore opera di pubblicizzazione di quella Facoltà; si potrebbe invitare qualche personalità prestigiosa (non con il solo classico obiettivo di reciprocità: farsi invitare come restituzione di favore). Non esaurisco tutta la casistica possibile poiché sono assolutamente sicuro che un sano confronto fra docenti e studenti farebbe emergere molte altre proposte aggiuntive degne di nota, di interesse, di attuazione. Naturalmente, i professori scioperanti avranno ancora tempo e modo di prendere spunto da quello che ho scritto per le loro prossime ‘agitazioni’.
Quanto alla ragione particolare per la quale non avrei scioperato, è in realtà un gomitolo di motivazioni. Esordisco in maniera rischiosa affermando che, tutto sommato, gli stipendi dei professori universitari sono buoni. Mi cautelo subito aggiungendo che il blocco degli stipendi è, da qualche tempo, ingiustificato e ingiusto. Dunque, condivido che il governo dovrebbe procedere alla sua abolizione. Tuttavia, non sta lì il problema dell’Università italiana, forse, meglio al plurale, degli Atenei italiani. Uscire dal corporativismo salariale significherebbe, da parte dei professori, non tanto riflettere, poiché alcune problematiche sono talmente evidenti, ma indicare soluzioni. Immagino che il richiamo ai doveri costitutivi, già accennato sopra, sarebbe respinto con fastidio, ma se nessuno dei docenti sgarrasse sarebbe più facile chiedere agli studenti di osservare a loro volta le regole per lo studio, per la frequenza, per gli esami (rendendo improbabile quel che successe vent’anni fa a una giovane studentessa la quale, di fronte alla bacheca che conteneva le date degli appelli, mi chiese se, per caso, conoscessi il prof di Scienza politica), persino per l’inevitabile selezione. Questo sciopero, fondamentalmente, ma, in parte, anche comprensibilmente, corporativo, avrebbe potuto essere ri-orientato cogliendo l’occasione non certo per riformare hic et nunc le università italiane, ma per evidenziarne coram populo i problemi culturali, non quelli burocratici, e cominciare a proporre qualche soluzione passibile di rapida attuazione. Qui, concludo, sta il linking: migliore sarebbe, e più fecondo, il rapporto fra docenti e studenti se né gli uni né gli altri si sentissero e trattassero come controparti, ma se entrambi, senza evitare i conflitti, agissero per migliorare il funzionamento delle istituzioni universitarie facendone una priorità.
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