Se c’è una parola tra le più abusate, maltrattate e indefinite nel dibattito pubblico italiano, quella è certamente lobby, con tutti i sostantivi o aggettivi ad essa connessi (lobbismo, lobbying, lobbista, lobbistico ecc.). In Italia, è un termine connotato negativamente, che rimanda alle attività di qualche eminenza grigia che frequenta i palazzi del potere, dei faccendieri abituati a bazzicare nel «sottobosco» della politica (il sottogoverno), addirittura dei corruttori di professione interessati a manipolare o inquinare il regolare procedimento decisionale. Tutte le volte che una lobby non viene chiaramente identificata o nominata, finisce poi automaticamente nella categoria onnicomprensiva di «poteri forti»: una scatola concettuale dove si trova dentro di tutto, riposto alla rinfusa e senza ordine. Dietro ai «poteri forti», che esistono e vanno precisamente individuati, si nasconde spesso il tentativo retorico dei politici di camuffare la propria incompetenza o incapacità decisionale oppure la pigrizia di giornalisti che preferiscono titoli roboanti a indagini minuziose sulle attività dei gruppi economici, politici, sociali che caratterizzano il funzionamento di qualsiasi sistema politico democratico.
Il termine lobby ha tante radici, tutte ugualmente utili per illuminare le diverse sfaccettature di questo fenomeno. Per gli americani, la lobby è la sala d’ingresso degli alberghi, quel luogo «aperto» nel quale gli ospiti possono ricevere gli invitati esterni. Per gli inglesi, lobby era anche la grande anticamera nella House of Commons dove i parlamentari erano soliti sostare per prendere contatti e interagire con i vari portatori di interessi. Risalendo ancora più indietro, i latini definivano lobia quell’insieme di corridoi, logge o loggiati tipici dei monasteri medievali, dove era possibile intrattenersi per scambiarsi opinioni o idee prima di rientrare dentro i «palazzi». In tutte queste tre versioni, l’origine del lobbying rimanda a luoghi aperti o comunque pubblici, a trattative o discussioni che si fanno en plain air, non troppo lontani da sguardi e orecchi indiscreti. Solo di recente al termine lobby è stato appiccicato un alone di mistero e segretezza, che lo rende assolutamente «telegenico», soprattutto per alcuni grandi registi di Hollywood, ma che ha finito per renderlo indistinguibile da altri fenomeni (corruzione, manipolazione, complotto, imbroglio ecc.) con cui ha poco o nulla da spartire.
Per ridare dignità e utilità a questo termine, è importante (ri)definirlo con precisione. Proviamo così: sono lobby tutte quelle organizzazioni che mirano a influenzare legalmente, sia a monte (individuazione delle tematiche) che a valle (contenuto delle decisioni), il processo decisionale all’interno di un sistema politico. In questo modo, è possibile tenere separate le attività illecite di influenza sui decisori politici da quelle lecite, tra cui rientrano quelle tipiche del lobbying. Inoltre, una simile definizione consente di definire il lobbying come un processo a più stadi, che non si esaurisce nel drafting legislativo, ma include anche tutte le operazioni finalizzate a individuare le tematiche che (non) entreranno effettivamente nell’agenda della politica. Per questo il lobbying è, prima di tutto, gestione/creazione organizzata di informazioni rilevanti per i decisori pubblici e per la propria associazione o gruppo.
Solo dopo avere chiaramente definito le caratteristiche e l’ambito d’azione del lobbying, sarà possibile – come avviene in numerosi paesi europei (e nella stessa UE) – adoperarsi per regolamentare le loro modalità di influenza e i relativi rapporti con le assemblee legislative, i rappresentanti governativi e le strutture burocratiche. Consapevoli, però, che non basteranno albi o registri di lobbisti per controllare o limitare i canali di influenza dei gruppi di interesse sulla classe politica, né tanto meno per evitare potenziali conflitti di interessi oppure bloccare le troppe «porte girevoli» che si spalancano di fronte a ex politici in cerca di nuova collocazione.
Liborio Mattina dice
Trovo molto utile il lavoro di chiarificazione che Marco Valbruzzi ha effettuato con il suo contributo sul termine lobby. Ritengo, tuttavia, necessarie due precisazioni per evitare il riproporsi di fraintendimenti che potrebbero riportare in alto mare la definizione di un concetto che abbisogna di solidi ancoraggi empirici per individuare e distinguere i processi che influenzano le decisioni politiche.
Il lobby, o meglio il lobbying è un’attività, non è un’organizzazione. La distinzione è importante perché altrimenti si confonde un agire con l’essere di un’organizzazione. Le due cose si sovrappongono solo in organizzazioni appositamente costruite per influenzare il processo decisionale, cioè nelle agenzie di consulenza che, per altro, non si limitano al lobbying ma fanno anche attività di crisis management e comunicazione politica.
Per il resto esistono tante organizzazioni che non sono organizzazioni lobbistiche sebbene svolgano una intensa attività di lobbying, perché essa è solo una – e non la principale – delle attività in cui l’organizzazione è impegnata. Per esempio l’Eni o l’Enel svolgono una consolidata attività di lobbying presso le istituzioni pubbliche ma non possono essere qualificate come delle lobby (direi meglio lobbies) perché la loro attività principale è la fornitura di carburanti ed energia elettrica.
Inoltre, l’attività di lobbying non è un’esclusiva delle organizzazioni perché può essere svolta anche a livello individuale, si pensi, per esempio, alla drammatica testimonianza resa da Piergiorigio Welby per il riconoscimento legale del diritto alla eutanasia, o alla solitaria battaglia condotta da Peppino Englaro contro l’accanimento terapeutico.