Sono tra coloro che pensano, non so quanto numerosi, che la parabola politica di Matteo Salvini si sia avvicinata alla sua fase discendente. Ha toccato l’apice vertiginoso con le elezioni Europee del 2019 e poi, per una serie di banalissimi errori, è iniziata la lenta decadenza. Si badi bene. Non sto dicendo che la leadership di Salvini è politicamente finita. Credo, però, che il suo momento magico, il momentum che lo aveva sospinto tra i leader più osannati d’Italia, sia arrivato al capolinea e che ora non si possa fare altro che gestire ‘onorevolmente’ la discesa. Sfidata sia dall’interno del suo stesso partito – con il risveglio del ‘rito ambrosiano’ incarnato da Roberto Maroni o nella variante autonomista rappresentata a suon di consensi personali da Luca Zaia – che dall’esterno nella competizione con Giorgia Meloni, la leadership di Matteo Salvini oggi non è più considerata indiscutibile. Mostra crepe sempre più serie e, soprattutto, appare completamente fuori sincrono rispetto all’agenda delle priorità del paese. Il che, per inciso, è piuttosto paradossale per chi, come Salvini, aveva costruito il suo successo giocando abilmente le carte dell’‘imprenditore della paura’. Ora che la paura, quella vera, innescata dalla pandemia, è piombata improvvisamente nelle nostre vite, la leadership salviniana, al pari di quella di Trump, Johnson o Bolsonaro, si è trovata del tutto spiazzata.
Però, quello che mi interessa non è tanto il destino politico di Salvini o la leadership del centrodestra. Molto più interessante, invece, è cercare di capire che cosa si muove dentro, o dietro, queste leadership effimere, che durano appena lo spazio di una stagione e poi si afflosciano di fronte alle prime difficoltà. Da questo punto di vista, Salvini (come Renzi prima di lui) è un esempio da manuale di quelli che oggi va di moda definire «leader Narcisi». Sulla cultura del narcisismo, in chiave sia politica che sociale, non c’è altro da aggiungere a quanto già scritto, con straordinaria preveggenza, da Christopher Lasch. Ma se l’argomentazione si trasferisce sulle leadership contemporanee, soprattutto quelle italiane, allora merita approfondire un po’ di più il tema.
Stringendo sull’essenziale, si possono identificare tre caratteristiche tipiche delle attuali leadership narcisistiche. La prima è la celebrità o, meglio, l’idea di celebrità attorno a cui si costruisce un leader. Non ha niente a che vedere con la fama che deriva dall’aver compiuto imprese straordinarie degne di nota. Nel culto della celebrità, ci ricorda Lasch, «non conta ciò che un uomo fa, ma che egli “ce l’abbia fatta”». Di conseguenza, il celebrity leader è del tutto slegato da qualsivoglia finalità, non possiede un percorso che lo conduca verso qualche meta prestabilita. Il successo della celebrità è il successo stesso, come un criceto che fa girare a vuoto la sua ruota della fortuna. Il che, però, rappresenta anche il suo più grande tallone d’Achille: appena un granello imprevisto di sabbia entra nella giostra del successo/consenso, l’intero meccanismo si inceppa e a quel punto non c’è Bestia digitale che tenga (a proposito, che fine ha fatto il guru 4.0 della Lega, Luca Morisi?).
Proprio da questa debolezza strutturale della leadership contemporanea emerge la seconda caratteristica dei leader Narcisi: la provvisorietà. Fateci caso: quasi tutti i nuovi leader nascono con una data di scadenza stampata in fronte. Può essere questione di mesi o di anni, ma possiamo star certi (sereni?) che anche quella leadership andrà fatalmente incontro al suo tragico destino. Per chi, giustamente, pretende una sana circolazione delle élite, potrebbe non essere un danno troppo grosso. Ma c’è una controindicazione che spesso fingiamo di non vedere: leader (troppo) provvisori coltivano un istinto che li porta a interessarsi soltanto di ciò che gli è, per dirla con le parole di Tocqueville, «immediatamente vicino». Così si perde ogni continuità storica e si tralascia ogni prospettiva futura. L’unico tempo conosciuto è quello presente. Anzi, direbbe sempre Lasch, «vivere per il presente è l’ossessione dominante – vivere per se stessi, non per i predecessori o per i posteri». Ecco spiegato, tra le tante altre ragioni, perché nella nostra agenda politica fa così tanta fatica ad entrare il tema della giustizia intergenerazionale o, più banalmente, della responsabilità nei confronti dei posteri.
Infine, la terza caratteristica delle leadership narcisistiche contemporanee sta nella loro rapidità. Sia nell’ascesa che nella discesa, tutto accade repentinamente. Non c’è un processo di costruzione, di coltivazione delle qualità del leader perché il successo del celebrity leader avviene in modo spesso imprevedibile: basta aver azzeccato il giusto thread o il giusto hashtag (#rottamazione, #makeAmericagreatagain, #PortiChiusi ecc.) per essere catapultati al centro della scena, nella prima serata del reality show della politica. Naturalmente, questa rapidità, che ha subito un’accelerazione negli ultimi anni, è strettamente connessa ai nuovi mezzi di comunicazione digitali, in cui tutto è istantaneo, a partire dalla misurazione del consenso. Nella logica della ‘democrazia reattiva’, dove ciò che conta è il parere momentaneo espresso su una reazione ‘a caldo’ (dunque, a elevata emotività) tramite like/dislike, follow/unfollow o retweet, i tempi di costruzione della celebrity leadership sono assolutamente compressi, così come compressa è la fase della decostruzione del leader. Anche in questo caso, la debolezza è strutturale: un leader Narciso che si rispecchia continuamente nel riflesso dei propri seguaci momentanei sta consegnando il proprio successo a quanto di più aleatorio c’è oggi in politica, ossia l’opinione pubblica digitalizzata.
Questa è dunque la condizione delle leadership contemporanee, specialmente di quelle italiane. Effimere, passeggere, superficiali. Inevitabilmente esposte a cadere vittima delle proprie debolezze e delle aspettative crescenti da loro stessi alimentate per evitare di essere ‘nominati’ ed eliminati dal giudizio implacabile dei social. Proprio per questo sono leadership altamente esposte al variare della fortuna che, secondo Machiavelli, assomiglia a quei «fiumi rovinosi che, quando si adirano, allagano e’ piani, ruinano li arbori e li edifizi, lievano da questa parte terreno, pongono da quella altra: ciascuno fugge loro dinanzi, ognuno cede all’impeto loro sanza potervi in alcuna parte ostare». Una (s)fortuna incontrollata e impetuosa che travolge tutto ciò che incontra sul suo cammino, che trasforma in un attimo la fama in infamia, il leader più popolare nel più impopolare dei politici. Si può resistere a questo destino? Sì, per Machiavelli le sbandate della fortuna possono essere governate o placate, soprattutto «in tempi queti», innalzando «argini e ripari» e resistendovi con «ordinata virtù». Ovvero, costruendo dighe culturali, organizzative, istituzionali che consentano ai leader di non perdere la bussola, di avere un percorso e un progetto da seguire, di restare stabili anche quando le condizioni volgono al peggio. Sarebbe bello immaginare che, qualcuno, là fuori stia facendo tutto questo, in operoso silenzio. E invece no. Tutti stanno soltanto aspettando la prossima folata di vento.
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