«È la manovra del popolo, bellezze, e voi non ci potete fare niente». Al balcone di Palazzo Chigi – che non è a piazza Venezia, ma dista poco… – il novello Humphrey Bogart al secolo Luigi Di Maio, in preda a delirio populista, manda a quel paese l’Europa di Bruxelles e della Bce, tutte le cancellerie continentali ma soprattutto quelle francese e tedesca, gli euro e gli italo burocrati e più in generale le élite di ogni risma – tutti riassunti nell’espressione «poteri forti», tipica degli impotenti – e ci consegna il concentrato della politica economica e di bilancio che il ‘governo del cambiamento’ è in grado di spremere dalla propria cultura e dal proprio sapere. Una manovra alla Zorro, con la quale si pretende, nientemeno, di abolire la povertà facendo un po’ di deficit spending. Come se usare risorse che non si hanno fosse una novità nella politica italiana.
Ma se lo spettacolo offerto nella predisposizione della legge di bilancio lascia sgomenti, non meno edificante è ciò a cui abbiamo assistito nelle reazioni di avversari e critici dei pentaleghisti. Aggrappati allo spread e alle pagelle delle agenzie di rating, e coltivando la malcelata speranza che l’Europa gliela faccia vedere a quei barbari, ci si è limitati a polemizzare sui numeri, rei di farci sforare i parametri europei, come se in precedenza qualcuno li avesse mai davvero rispettati. Nessuno, invece, che al di là di ogni valutazione sulla quantità di deficit decisa – più che legittima, sia chiaro – abbia affrontato la vera questione, che è di merito. Ponendo la domanda: ad un’economia come quella italiana, ancora a metà del guado tra una recessione sanguinosa che è alle spalle senza però averne del tutto metabolizzato le tossine, e una nuova stagione dello sviluppo che è ben lungi dall’essere stata afferrata a pieno, la manovra serve a dirigersi verso la riva della crescita o non piuttosto verso quella della decrescita, e per di più infelice? Francamente, la somma tra misure assistenziali (reddito di cittadinanza, revisione della legge Fornero) e generici vantaggi fiscali (la presunta flat tax) non fa proprio ben sperare che la via imboccata sia la prima. L’Italia ha bisogno di fare investimenti, non di distribuire risorse a debito nella speranza (vana, si pensi agli 80 euro di Renzi) che si trasformino in consumi e quindi in pil. Ma se un po’ tutti sono d’accordo che le prime spese in conto capitale da fare sono quelle in infrastrutture visto che il Paese cade a pezzi – salvo poi bloccarsi al cospetto del ‘partito del No’ – nessuno indica nella gerarchia delle urgenze gli investimenti per la valorizzazione del capitale umano. Eppure se si avesse a mente il gap di competenza che abbiamo, si capirebbe che è da qui che l’Italia dovrebbe (ri)partire. Vediamo allora di guardare in faccia il problema, con l’aiuto di un po’ di numeri che peschiamo da un’interessante relazione del direttore generale della Banca d’Italia, Salvatore Rossi.
Intanto partiamo dal presupposto che da oltre vent’anni lo sviluppo economico in Italia si è inceppato, mentre le altre economie hanno avuto ben altro andamento. Nel decennio precedente la crisi planetaria, il nostro prodotto interno lordo è cresciuto in media meno di un punto l’anno, contro i 3 punti e mezzo del resto dell’eurozona. Nell’ultimo decennio, poi, complice la doppia recessione (prima mondiale, poi europea), il distacco dagli altri paesi avanzati si è ancor più accentuato, tanto che ora, pur dopo tre anni di ripresa, siamo ancora distanti 5 punti percentuali dal livello massimo raggiunto nel 2007, quando invece il resto dell’area euro è oltre del 6%. E come hanno fatto i nostri competitor a crescere tanto più di noi? Soprattutto aumentando l’efficienza delle loro imprese produttive, in particolare la componente dovuta alle tecnologie e ai nuovi saperi. E perché noi non siamo riusciti a stare al passo degli altri su questo decisivo elemento di competitività? Semplice: per un evidente squilibrio tra domanda e offerta di personale qualificato, a sua volta dovuto all’incapacità del sistema nazionale d’istruzione di dare agli studenti le giuste competenze.
Secondo l’Ocse, i diplomati in Italia sono un quarto in meno della media europea: 60% della popolazione nella fascia di età 25-64 anni, contro l’80%. Per i laureati la situazione è ancora peggiore: in Italia sono il 17% degli adulti in età di lavoro, in Europa la media è oltre il doppio (35%).
Tutto questo non è casuale, ma il frutto di precise scelte politiche. La scelta di usare le (poche) risorse disponibili per il personale docente e non docente anziché per gli studenti e il materiale didattico. La scelta di favorire, tra i diversi gradi di istruzione, le scuole dell’obbligo, a discapito della scuola superiore, dove i licei hanno avuto più attenzioni che le scuole professionali, e dell’università, dove hanno proliferato gli insegnamenti accademici e le lauree marginali. Tanto che in entrambi i casi, superiori e atenei, siamo ultimi in Europa. La scelta delle Regioni è di investire poco e male nella formazione professionale. Così, attardati a combattere l’antico analfabetismo di massa, che potremmo definire analogico, abbiamo prodotto un nuovo analfabetismo, quello digitale.
Insomma, l’impegno del legislatore per l’istruzione è del tutto inadeguato, per quantità e indirizzo, alle esigenze della modernità, fatta di ricerca scientifica spinta, di innovazione continua, di competizione esasperata, di incrocio virtuoso tra formazione e sistema delle imprese. E ciò rende scuole e università distanti anni luce dalle esigenze della produzione e dello sviluppo. Un governo che vuole il cambiamento, quello vero, come può non attestarsi sulla frontiera di una radicale trasformazione del sistema d’istruzione? Certo, verrebbe da dire che le risorse non ci sono. Ma fare a debito la rivoluzione digitale dell’istruzione sarebbe di sicuro meglio – per noi, ma anche per l’Europa – che usare i soldi, anzi il debito, per mandare prima in pensione la gente in tempi di allungamento della vita media o per finanziare il reddito di nullafacenza.
E poi ci sono anche decisioni che non costano. Per esempio, redistribuendo la spesa a favore dell’università, con un occhio di riguardo per le lauree professionalizzanti, delle scuole di dottorato e dei percorsi di specializzazione tecnica post diploma. O semplificando il quadro burocratico-amministrativo dei contratti di apprendistato. O, ancora, favorendo il trasferimento tecnologico dalle università alle imprese, ipotizzando forme di condivisione della proprietà dei brevetti (e relativi proventi) tra i ricercatori e le strutture universitarie.
Volendo, insomma, si potrebbe rompere il circolo vizioso che trasforma i limiti del sistema educativo, da cui discende una scarsa offerta di capitale umano qualificato sul mercato del lavoro, in altrettanti limiti del sistema produttivo, che fatica nell’adozione di tecnologie innovative a discapito di produttività e competitività, come dimostra il fatto che negli ultimi due decenni gli investimenti in beni immateriali, costituiti per oltre metà da spese per ricerca e sviluppo e brevetti, sono cresciuti in Italia solo del 30% (contro il 70% di Francia e Germania e il 140% della Spagna), e che in rapporto al pil l’accumulazione immateriale della nostra economia è del 3%, inferiore a quella tedesca (4%) e francese (6%). Volendo. Appunto.
Marco Valbruzzi dice
Ottimo contributo, che contiene una ricetta (probabilmente l’unica oggi in circolazione) in grado di garantire una crescita stabile nel lungo periodo ed equa per le nuove generazioni. Ma se la ricetta è quella giusta, perché non si trovano “cuochi” disposti a metterla in pratica sul piano nazionale? Negli ultimi decenni tutti i governi, di ogni colore, hanno destinato sempre meno risorse per istruzione, ricerca e sviluppo. E anche quello attuale, del cambiamento promesso, sembra intenzionato a procedere sulla stessa strada, soltanto con maggiore spericolatezza rispetto ai governi precedenti. Se però questa ricetta non trova né estimatori né realizzatori sul piano nazionale, l’unica via (maestra) che rimane è quella europea, se sarà capace di uscire dalla trappola dell’austerità per costruire un’Europa sociale e solidale. Ecco perché l’appuntamento di maggio 2019 diventa, al di là del destino dei sovranpopulisti, uno snodo davvero cruciale per il futuro dell’Europa e dei suoi Stati-membri.
Carmelo Vigna dice
Intervento eccellente. Purtroppo senza destinatari, quanto alla classe politica al potere.
Ma la speranza che questa ubriacatura farsesca non finisca in tragedia, dobbiamo pure coltivarla. E farla girare, la speranza.
Gianfranco Pasquino dice
Da par suo, Cisnetto dà i numeri, mentre il governo getta il cuore, oh, sì, il cuore, perché di altri organi è meglio non parlare, oltre gli ostacoli. Articolo ottimo, da meditare e da approfondire. Polemicamente, avrei solo aggiunto un’altra “verità”: quei dati vengono da fonti ufficiali, che non hanno nessun interesse a speculare, non dai poteri forti. Concludo che, in democrazia, i poteri forti sono, se lo dimostrano, i governi esperti e competenti, che è la lezione da trarre dai governi dell’Unione Europea. ov