Per quanto l’espressione possa suonare strana, nel mondo si sta rapidamente diffondendo il concetto di ‘sovranità digitale’. Ciò significa che una nazione ribadisce il proprio diritto di controllare totalmente l’accesso dei suoi cittadini al web.
Ancora una volta l’antesignana di questa politica è la Repubblica Popolare Cinese. Dopo un periodo di relativa rilassatezza, seguita alle riforme economiche di Deng Xiaoping, a partire dal primo decennio degli anni Duemila il Partito comunista si è trovato ad affrontare la vastità della Rete.
Come tutti sanno, si tratta di uno spazio virtuale che è, in teoria, privo di confini e di limiti. I cittadini di qualsiasi nazione possono accedervi liberamente, ovviamente se possiedono gli strumenti per farlo.
E l’accesso passa solitamente attraverso i grandi social network come Google, Facebook, Twitter etc. Una delle loro caratteristiche è quella di essere emanazioni di aziende con sede negli Usa e di essere controllati, per l’appunto, da gruppi economici americani.
Quando la tensione tra Pechino e Washington ha cominciato a crescere, il Partito comunista ha subito capito che, se voleva mantenere il controllo sociale e politico della popolazione, doveva correre ai ripari impedendo ai cinesi di accedere ai colossi Usa del web.
Di qui la creazione di network esclusivamente cinesi, con caratteristiche spesso simili a quelli occidentali, ma con severe limitazioni per quanto concerne la possibilità di ricevere notizie dall’estero e di dialogare con cittadini di altri Paesi.
Per un certo periodo i cinesi abili dal punto di vista informatico sono riusciti a eludere sorveglianza e divieti passando attraverso i network occidentali che erano ancora attivi (e liberi) a Hong Kong.
In seguito la repressione politica attuata da Pechino nella ex colonia britannica, e la sua successiva ‘normalizzazione’, hanno tolto pure quest’ultima possibilità,
Anche i network occidentali per lungo tempo attivi a Hong Kong sono stati oscurati, e a tutti i cittadini del Dragone è ora vietato l’accesso. Resta qualche spazio di libertà, per quanto limitato, ai corrispondenti esteri che lavorano in Cina, previa presentazione di una documentazione adeguata.
Per farla breve, i cinesi apprendono quanto avviene all’estero solo attraverso i media ufficiali autorizzati dal Partito. Nello stesso tempo è assai difficoltoso per gli stranieri sapere quanto accade realmente nella Repubblica Popolare.
Anche perché Pechino si sforza di lasciar filtrare soltanto notizie positive, censurando severamente quelle che non giudica tali. Non si può quindi mai sapere se le informazioni che riceviamo dai siti cinesi sono fake news oppure no.
L’esempio classico è la storia del virus di Wuhan: incidente di laboratorio, fuga accidentale o qualcos’altro? Impossibile dirlo, almeno finora.
È interessante notare, a tale proposito, che, agendo in questo modo, la Repubblica Popolare considera la propria Rete alla stessa stregua del suo territorio fisico. Non è più uno spazio virtuale, bensì uno spazio reale sul quale Pechino rivendica un’autorità, esclusiva, proprio come avviene per il territorio che appartiene alla nazione.
Fatto indubbiamente importante, e che ha indotto altri Paesi autoritari a imitare l’esempio cinese, come nel caso dell’Iran. Se questa tendenza continuerà, avremo la fine del «villaggio globale» teorizzato da Marshall McLuhan.
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