Lo scontro fra massimalismo e riformismo è un tema sempre verde nella sinistra e non solo. Non riguarda solo l’Italia; basta guardare alle primarie americane, per citare solo quasi un’ultima ora. Di questi tempi assume anche un’altra eterna veste: quella dell’integralismo.
In sostanza, quando si afferma un principio, o lo si assume nella sua integralità, nella sua radicalità, o di fatto lo si tradisce. I principi non sarebbero negoziabili. Messa così, si può finire con il riconoscere una certa fondatezza dell’assunto. Proviamo però a presentare la questione sotto un’altra prospettiva.
I principi non saranno negoziabili, ma sono sempre declinabili. Non possono essere ridotti all’astrattezza di un assioma; vanno, come si sarebbe detto una volta, incarnati.
I nemici del dialogo e della tolleranza aborrono questo modo di ragionare, perché li priva della loro posizione di giudici supremi del bene e del male, cioè di ciò che ti consente di stabilire che sono loro quelli che possono tracciare il confine che separa chi è dentro e chi è fuori.
In realtà non è così. Le religioni evolute, e soprattutto quella cristiana, ammoniscono sull’impossibilità di ergersi a giudici. Non solo può scagliare le prima pietra solo chi è senza peccato, cioè nessuno, ma chi pensa di estirpare le male erbe dal campo finirà per sradicare anche il buon grano.
È una saggezza che dovrebbe valere soprattutto in politica, campo per eccellenza dell’incerto e del transeunte. Il regno di Dio non è di questo mondo, ed è inutile pensare di instaurarlo.
Si potrebbe pensare che ormai ne siamo convinti quasi tutti, ma non è così. Siamo, invece, nelle mani di una guerra di pseudo-religioni nella quale ci si chiede continuamente di aderire con chiarezza all’uno o all’altro campo, come se poi fossero definiti.
Ambientalismo, giustizialismo, relazioni di genere, individualismo, collettivismo, sovranismo, internazionalismo, tutti gli ‘ismi’ che si possono immaginare vorrebbero una adesione ‘integrale’. Per ognuno di questi c’è solo il ‘programma massimo’: chi non si batte per instaurarlo al più presto è nel migliore dei casi un debole, normalmente un traditore. Estrarre dal programma massimo il famoso ‘programma minimo’ sarebbe una truffa: gradualismo senza prospettive, svendita degli ideali.
Invece, c’è proprio bisogno di recuperare consapevolezza che la forza creatrice dell’uomo sta nella sua capacità di declinare i principi, di trovare le vie per giungere il meno lontano possibile dall’ideale, di essere in grado di coinvolgere in un lavoro comune tutti quelli che sono interessati in qualsiasi modo a misurarsi con quei principi e con quegli ideali, anche se possono esprimerli in una maniera diversa dalla nostra.
In un’epoca di transizione storica come quella in cui viviamo c’è enorme bisogno di riscoprire il valore maieutico del concetto di riforma. Perché pone sempre il problema di riformare noi stessi innanzitutto. E poi ci aiuta a prendere coscienza del nostro peccato originale: quello di avere osato pensare che saremmo diventati come Dio, ovvero come l’Unico che può definire il Bene e il Male.
Michele Magno dice
Pensieri saggi, quelli del prof. Pombeni. Mi hanno fatto venire in mente un vecchio e divertente adagio:”Il massimalismo è il tutto mai; il riformismo è il niente subito”.