Il recente intervento in cui Mario Morcellini presenta il Libro Bianco media e minori 2.0, curato dall’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni (AgCom) rappresenta una ghiotta occasione per ragionare su alcuni profili etici legati alla ricerca scientifica sui comportamenti mediali di giovani e giovanissimi. Il complesso delle attenzioni e delle garanzie che devono essere riconosciute e garantite ai bambini e ai ragazzi, infatti, è un tema che riguarda anche i ricercatori impegnati a svolgere ricerche che osservano (e spesso coinvolgono direttamente) i minori.
La velocità del cambiamento tecnologico è tale per cui il panorama delle pratiche di utilizzo dei media digitali cambia repentinamente, aprendo a nuovi orizzonti di possibilità e rischi. Molto spesso, anche la riflessione scientifica fatica a tenere il passo con il ritmo incessante del cambiamento.
Recentemente, un numero speciale della rivista «New Media and Society», intitolato Children’s and young people’s rights in the digital age, curato da Sonia Livingstone e Amanda Third ha cercato di fare il punto su come la comunità degli studiosi dei media stia affrontando la questione dell’inquadramento etico della ricerca su mezzi di comunicazione e minori.
Come ci ricordano le curatrici del numero monografico citato, il prossimo anno saranno trascorsi trent’anni dall’approvazione della Convenzione ONU sui diritti dell’infanzia e dell’adolescenza (Convention on the Rights of the Child) e dalla formulazione dei primi documenti che descrivevano l’architettura complessiva di quello che sarebbe diventato il World Wide Web. Eppure, davvero poco si è fatto per un’integrazione sistematica tra i diritti dei bambini e i media digitali. Si potrebbe anzi sostenere che gli ideali di libertà e orizzontalità che certamente caratterizzavano il lavoro di Tim Berners-Lee siano oggi messi pesantemente in discussione.
Tornando alla Convenzione, troviamo in essa un quadro esauriente dei diritti dei bambini e dei fanciulli, secondo uno schema generale che poggia su quattro principi fondamentali: il diritto alla vita, alla sopravvivenza e allo sviluppo (art. 6); il superiore interesse del fanciullo (art. 3); il diritto alla non discriminazione (art. 2); il diritto ad essere ascoltato nelle questioni che intercettano direttamente la sfera di interesse del fanciullo.
La Convenzione tutela il diritto all’identità (art. 8) e alla protezione dalla violenza e dallo sfruttamento sessuale (art. 34). Troviamo, al suo interno, un’attenzione più ampia nei confronti di diritti applicabili anche al mondo degli adulti quali la libertà di espressione, la privacy e la salute (artt. 24-25); diritti più specificatamente pensati per il mondo dell’infanzia e dell’adolescenza come quelli relativi all’educazione (artt. 28-29) e al gioco (art. 31). Troviamo, altresì, il riconoscimento dell’importanza dei mezzi di comunicazione come fattori in grado di incidere sul benessere sociale, spirituale e morale dei fanciulli e sulla loro salute fisica e mentale (art. 17).
Esistono, però, alcune questioni aperte. Ancora con Livingstone e Third possiamo confrontarci con un limite generale che riguarda la definizione del soggetto protagonista della Convenzione. L’articolo 1, infatti, dichiara che «si intende per fanciullo ogni essere umano avente un’età inferiore a diciott’anni, salvo se abbia raggiunto prima la maturità in virtù della legislazione applicabile». Uno sforzo lodevole di inclusione, che rischia però di non fornire un buon servizio in termini di demarcazione specifica degli ambiti di intervento. Dal punto di vista della ricerca sui media, infatti, l’intervallo proposto è di difficile applicazione rispetto agli standard scientifici attuali.
Gli studiosi dei media devono avere il coraggio di affrontare uno dei nodi teorici principali nel rapporto tra diritti dei bambini e digitalizzazione: il bilanciamento tra rischi e opportunità, entrambi destinati a crescere in relazione alle esperienze online dei giovani. Ecco perché non possiamo risolvere la questione dei rischi semplicemente evitando che i minori vadano in rete. Un intervento solamente restrittivo andrebbe ad incidere negativamente anche sui benefici che l’online può portare ai bambini e ai ragazzi.
I giovani hanno il diritto all’accesso ai media digitali e devono poter sperimentare attività online legate all’apprendimento, all’informazione, alla socialità, all’intrattenimento, alla creatività e alla partecipazione. Devono altresì poter costruire percorsi di approfondimento che consentano di acquisire e strutturare le skill digitali sperimentando e integrando le differenti forme di literacy, come recentemente ribadito dal gruppo di ricerca che ha condotto l’iniziativa Global Kids Online (Byrne et al. 2016).
Accanto a queste opportunità, però, occorre riconoscere specifiche dimensioni di pericolo associate all’utilizzo dei media digitali. Pensiamo, ad esempio, ai social network e al rischio di entrare in contatto (online, ma anche offline!) con persone sconosciute o comunque fuori dalla cerchia della mediazione familiare. In termini di danni specifici si possono considerare, tra gli altri, quelli derivanti dal contatto con contenuti sessuali (per non parlare di forme specifiche di abuso sessuale o sfruttamento) e quelli relativi al fenomeno del cyberbullismo.
I ragazzi e le ragazze hanno non soltanto il diritto di partecipare, ma anche di sbagliare, senza che le conseguenze dei loro errori diventino difficili da gestire in un ambiente digitale che tende a produrre tracce indelebili.
Al di là degli aspetti legislativi, la questione dei dati assume una rilevanza più generale che ha a che fare con l’idea che abbiamo del fanciullo. Se accettiamo l’ipotesi che bambini e fanciulli siano soggetti attivi capaci di esprimere le loro opinioni, la sistematica raccolta di dati che li riguarda (anche effettuata in termini legalmente corretti) racconta implicitamente di soggettività che non sono in grado di esprimersi autonomamente e che possiedono un’identità solo quando essa è costruita dagli altri. Pensiamo, a titolo di esempio, alla quantità di dati che viene ogni giorno prodotta dai bambini (anche molto piccoli) quando interagiscono con gli smart-toy. Chi è il titolare di questi dati? Quali sono i livelli di sicurezza di questi strumenti?
Rispetto a questi profili di rischio è opportuno un complesso di interventi legislativi e di regolamentazione orientati alla massima salvaguardia dei bambini. Occorre, però, prestare attenzione agli effetti non sempre previsti di questi interventi di protezione. Si rischia, altrimenti, di generare episodi in cui le pratiche sociali che hanno luogo all’interno della rete collidono con le policy (Bulger et al. 2017) invece di trovare in esse una infrastruttura di empowerment.
È, questo, un ambito specifico in cui la rilettura della storia degli studi sociali sui media può fornire molte indicazioni. Pensiamo, a solo titolo di esempio, alla questione degli effetti dei media e al tema del contenuto pericoloso dei mezzi di comunicazione. Un terreno in cui la distanza tra le soluzioni pensate dagli adulti per i ragazzi e i la sensibilità specifica di questi ultimi è stata spesso la causa dell’inefficacia delle soluzioni.
Nel dettaglio, proprio per quanto riguarda i ragazzi e le ragazze, si osservano attualmente una serie di situazioni paradossali che il legislatore deve affrontare: legislazioni che considerano i ragazzi come innocenti da proteggere, senza considerare che essi possono essere soggetti attivi e dotati di agency anche nell’interpretazione di comportamenti negativi (es. sexting e cyberbullismo); interventi normativi che, cercando di proteggere i ragazzi dagli abusi, finiscono per criminalizzare alcuni comportamenti che i ragazzi considerano normali; leggi che per proteggere i ragazzi rischiano di ledere (più o meno intenzionalmente) i diritti degli adulti (Bulger et al. 2017).
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