In Italia la pandemia ha comportato, come altrove, una cospicua espansione del Welfare State. Il confronto con un rischio (sanitario) sistemico ne ha fatto risaltare la finalità assicurativa, rispetto a una semplice redistribuzione. Quando l’intervento si è esteso dai rischi sanitari (cura, prevenzione del contagio, organizzazione dei vaccini) ai rischi economici associati alla pandemia, è mancata però l’occasione di una riflessione critica sulle possibili inadeguatezze del nostro sistema di Welfare.
In una precedente riflessione («Paradoxa», gennaio-marzo 2019), osservavo che in Italia c’è una difficoltà di riconoscere nel Welfare State una intrinseca dimensione assicurativa e di tenerne conto nel disegno operativo. Questa difficoltà si è amplificata nella pandemia. In particolare, con riferimento al rischio di disoccupazione, c’è una seria confusione tra la tutela a posteriori dei lavoratori in difficoltà e l’obiettivo di facilitare l’incontro tra offerta e domanda di lavoro.
La pandemia non ha modificato le caratteristiche del rischio di disoccupazione: i lavoratori coinvolti sono per lo più meno protetti istituzionalmente o presentano un’offerta di lavoro rigida, per competenze inadeguate o vincoli alla mobilità; la distribuzione del rischio è difforme tra gruppi sociali e, all’interno dei gruppi, presenta asimmetrie informative che danno adito a selezione avversa; la correlazione dei rischi impedisce inoltre alla legge dei grandi numeri di operare in modo sincronico. Queste ragioni fanno sì che il rischio di disoccupazione non trovi copertura nel mercato. Benché questi elementi siano noti, la discussione pubblica sull’intervento del Welfare State si concentra prevalentemente sui timori di moral hazard. Argomento tipico del ‘conservatorismo compassionevole’, per il quale il rischio di disoccupazione deve ricadere sui lavoratori e la società intervenire solo in casi di indigenza, il moral hazard ha fatto breccia da tempo anche in ambienti liberal o socialdemocratici (come il governo Schröder in Germania).
In Italia la vicenda ruota intorno al ‘reddito di cittadinanza’. Proposto originariamente dal partito di maggioranza relativa come misura di contrasto alla povertà, si è trasformato nella sua attuazione (anche in pandemia) in un meccanismo congiunto di sostegno della disoccupazione e di politica attiva del lavoro. In entrambi i casi è stata data rilevanza prioritaria alla prevenzione di comportamenti opportunistici. Il focus sul moral hazard suscita però perplessità. La misura investe la dimensione assicurativa del Welfare State e il moral hazard è presente in qualsiasi scambio assicurativo. Tuttavia si incorre in un diffuso errore concettuale quando modalità di controllo dell’opportunismo tipiche delle relazioni contrattuali tra privati sono trasferite sull’intervento dello Stato.
Nei contratti assicurativi la prevenzione del moral hazard fa leva su due meccanismi: (i) la franchigia fa ricadere parte del rischio sul soggetto assicurato; (ii) il comportamento dell’assicurato è sottoposto a controllo diretto. Applicare meccanicamente questi due meccanismi alla tutela dalla disoccupazione è però un errore. La disoccupazione investe l’intera sfera vitale di un individuo. Il rischio di essere disoccupati è diverso da quello associato a uno specifico asset di un più ampio portafoglio. Per un verso, prevederne una copertura parziale equivale ad ammettere che i lavoratori possano essere trasformati in indigenti da affidare alla carità pubblica. Per altro verso, assoggettare a controllo le vite individuali può facilmente risolversi in un preoccupante intreccio di invasività e di sostanziale inadeguatezza: da un lato, è necessario far leva su una burocrazia vasta, costosa e in genere incapace di discernimento; dall’altro, un’istituzione fondamentale di equilibrio sociale, finalizzata a proteggere gli individui da rischi distribuiti asimmetricamente, è edificata sulla sfiducia tra Stato e cittadini bisognosi. È la denunzia di Ken Loach in Io, Daniel Blake. Ma è anche la china che potrebbero prendere le restrizioni e le complessità dei controlli sulle modalità operative del reddito di cittadinanza introdotte in Italia per rimediare all’insoddisfacente esperienza degli anni scorsi.
L’alternativa, non facile, è ripensare radicalmente l’operatività del Welfare State. L’idea originaria di ‘reddito di cittadinanza’, o ‘reddito di base’, proposta da Philippe Van Parijs, fa leva su caratteristiche assai diverse da quelle con cui la nozione è poi entrata tra le proposte di policy in Italia. Il ‘reddito di base’ non assimila l’intervento del Welfare State a un contratto assicurativo di mercato, ma identifica un meccanismo (i) universale; che opera (ii) ex-ante; e (iii) incondizionatamente. L’obiettivo non è solo quello di semplificare l’apparato burocratico e ridurre i costi amministrativi del Welfare. È anche, e soprattutto, un approccio radicalmente diverso al problema dell’opportunismo nelle relazioni sociali. Il ‘reddito di base’ non elimina il moral hazard, ma vuole contrastarlo in modo differente. Attraverso la predisposizione, ex-ante e per chiunque, di una incondizionata protezione dal rischio, intende attingere a un canovaccio complesso di incentivi individuali in grado di far leva, invece che sulla sfiducia e sul sospetto tra Stato e cittadini, su una logica di appartenenza sociale. Prese nella loro interezza, le scienze sociali conoscono la ricchezza di meccanismi, non contrattuali, di controllo del comportamento opportunistico che insistono su reciprocità e relazioni spontanee di mutua assicurazione. Il dibattito politico sul Welfare State non dovrebbe ignorare questi meccanismi, a maggior ragione a fronte dell’evidenza di una crescente inadeguatezza dell’attuale disegno istituzionale. Peraltro, anche gli economisti, che pure per molto tempo hanno guardato a tali meccanismi come a oggetti estranei, investono ormai nella loro comprensione, con la ricerca di Economia sperimentale e di Economia Comportamentale.
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