Ma che cosa sta accadendo con i vaccini? Fino a ieri sembrava che il vaccino AstraZeneca non potesse essere somministrato agli over 55, ma l’Aifa, l’Agenzia italiana del farmaco, ha deciso che sia somministrabile a tutte le persone sane fino a 79 anni. L’EMA, l’Agenzia europea, pur non escludendo che il suddetto vaccino potesse essere efficace anche per persone più anziane, aveva tuttavia dichiarato che «non ci sono ancora abbastanza risultati relativi a persone con più di 55 anni per poter dire quale sia l’efficacia del vaccino (AstraZeneca) su questo gruppo di persone». In alcuni paesi, come la Svizzera, pare che tale vaccino non sia stato nemmeno autorizzato.
Che cosa deve fare dunque un quasi Settantenne come il sottoscritto, che non sa nulla di vaccini, si fida dei vaccini, ma quando ne sente parlare ha l’impressione che le opportunità politiche abbiano il sopravvento su quelle sanitarie?
Fino a ieri sapevo che, arrivato il mio turno, mi sarei dovuto vaccinare con il vaccino Pfizer, oggi vengo a sapere che va bene anche AstraZeneca. Solo che in questo trambusto informativo sorgono spontanee alcune domande: mi fanno fare il vaccino AstraZeneca perché davvero è efficace o perché il Pfizer non è disponibile? Mi conviene vaccinarmi comunque subito o mi conviene aspettare?
Siccome non sono un medico, dovrò ovviamente parlarne con il mio medico, cosa che di solito faccio fideisticamente. Ma in questo caso sento una strana inquietudine, come se la questione vaccini, anziché basarsi sull’evidenza medica, si basi sulla convenienza politica. Sarà una sorta di effetto Trump. Ma l’insistenza dell’ex presidente americano (e non solo lui) sul fatto che il vaccino sarebbe comunque arrivato in pochi mesi e che quindi tutti dovevano starsene tranquilli, come se la pandemia non ci fosse, certamente non ha aiutato in tal senso. In ogni caso l’accavallarsi di informazioni ‘scientifiche’ tra loro troppo difformi in materia di vaccini un effetto deleterio sicuramente l’avrà: quello di erodere ulteriormente la risorsa più preziosa della relazione medico-paziente: la fiducia.
È un antico tema questo. Almeno da quando l’Organizzazione Mondiale della Sanità ha definito la salute come «completo benessere fisico, psichico e sociale», le aspettative dei pazienti nei confronti dei medici sono cresciute enormemente. Il ‘diritto alla salute’ declinato come una sorta di diritto alla guarigione, piuttosto che alle cure, ha alimentato la convinzione che se il paziente non guarisce la colpa è del medico che non lo ha curato a dovere, il quale per questo va denunciato e punito.
Se poi a questo aggiungiamo le notizie che circolano in rete e gli innumerevoli programmi televisivi dedicati alla salute, dai quali i pazienti traggono informazioni per pretendere che il loro medico li curi come dice il tale o il tal’altro, ecco che il quadro risulta abbastanza evidente di quanto sia diventata complessa la relazione di cui stiamo parlando. Una complessità certamente aggravata dalla pandemia. Basti pensare ai dibattiti tra virologi, cui abbiamo assistito in questi mesi. Salvo rare eccezioni, non credo che tali dibattiti abbiano contribuito a promuovere tra i cittadini un’immagine più adeguata della scienza o una maggiore fiducia nella scienza.
Ritornando ai vaccini, i problemi cui facevo cenno sopra sono tanto più gravi se consideriamo la diffidenza che sembra caratterizzare l’atteggiamento degli italiani rispetto alle vaccinazioni in quanto tali, o l’aperta ostilità dei cosiddetti ‘no vax’. Personalmente appartengo a quella categoria di persone che, fin da bambini, hanno considerato naturale fare tutti i vaccini consigliati dai medici. Oggi sappiamo però che questa disposizione favorevole non è più così scontata.
Una ragione in più per essere veritieri e convincenti nella comunicazione, non ambigui o, peggio ancora, in malafede. Ma anche una ragione in più, affinché le istituzioni nazionali e sovranazionali agiscano in modo credibile. Apprezzabile e preoccupante insieme il mea culpa recitato da Ursula von der Leyen qualche giorno fa: «Non siamo al punto dove vorremmo essere. Ci siamo mossi in ritardo con le autorizzazioni. Siamo stati troppo ottimisti riguardo alla produzione di massa (dei vaccini) e forse troppo fiduciosi che quelli che avevamo ordinato sarebbero stati consegnati in tempo».
Se per sconfiggere la pandemia è necessario che almeno il settanta per cento della popolazione sia vaccinata, occorre fare appello anzitutto alla responsabilità dei cittadini, guadagnare la loro fiducia, nella speranza che volontariamente si sottopongano alla vaccinazione. A tal proposito, confessare un’inadempienza come ha fatto la von der Leyen può essere più efficace che cercare di nasconderla.
A ogni modo, vista la gravità della situazione, non ci vedrei nulla di male se la vaccinazione venisse resa obbligatoria. Lo dobbiamo in primo luogo alle persone che ci sono più vicine, certo, ma anche al resto della comunità. Confesso che la prospettiva dell’obbligatorietà non mi piace, a maggior ragione se dovesse essere imposta come una sorta di scorciatoia per non perdersi in inutili chiacchiere con i cittadini. Lo abbiamo già fatto con i lockdown. Ma è pur vero che potrebbe essere una necessità.
Marta Regalia dice
Caro Professore,
è bello leggere i suoi legittimi dubbi. Ricordo molto bene il suo corso a Forlì nell’autunno del 2001, in un’aula ricavata nella navata di una (ex)chiesa con un’acustica terribile. Solo durante le sue lezioni potevo sentire il ronzio degli altoparlanti: eravamo tutti immobili e silenti, per rapimento e non per timore.
Concordo in tutto, ma dai dubbi da cui lei parte ricaverei come legittima conseguenza la non obbligatorietà: se non ci si sente sicuri, tutelati, se la fiducia è stata erosa, a maggior ragione è legittimo che chi si oppone/non si fida/dubita abbia il diritto di non affidare al Leviatano la propria vita
Sergio Belardinelli dice
Mi verrebbe quasi da dire: touché!
Ma il fatto è che forse in questi casi bisogna fidarsi. Spes contra spem.
Ovviamente grazie delle sue belle parole. Mi hanno fatto molto piacere