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Il nesso politica estera/politiche migratorie nel ‘migration compact’

12 Gennaio 2017 di Emidio Diodato 1 commento

Ha ragione Fulvio Attinà quando scrive (commento del 17/11/16) che non è sempre chiaro a cosa ci si riferisca con ‘migration compact’ e che certamente non può essere un programma di aiuti (allo sviluppo) dei paesi di origine e di transito affinché si tengano i migranti.

Proprio per questa ragione credo sia utile ripartire dal documento che l’ex-primo ministro italiano inviò il 15 aprile 2016 ai presidenti di Consiglio e Commissione dell’UE. L’obiettivo del documento, noto come ‘migration compact’, era contribuire alla progettazione di una strategia di ‘azione esterna’ in materia di migrazione. Benché scritto in modo generico, essendo un semplice contributo di pensiero (non-paper), il documento si basò sulla convinzione italiana che tutte le iniziative e gli strumenti europei nel campo dell’azione esterna avrebbero dovuto essere diretti (in modo coerente con le iniziative e gli strumenti interni) allo sviluppo di una strategia europea più attiva, puntando in primo luogo sui paesi africani di origine e di transito del fenomeno migratorio.

Da questa convinzione derivano, a mio parere, due punti qualificanti: 1) l’identificazione dei principali paesi con cui cooperare definendo il tipo di collaborazione da sviluppare con ciascuno di essi (l’Italia si proponeva per la Libia); 2) l’emissione di bond europei per finanziare le azioni, attivando il Servizio europeo per l’azione esterna che prevede il coordinamento e la divisione del lavoro tra i paesi membri dell’UE secondo il principio della ‘cooperazione delegata’.

Il meccanismo solidale di distribuzione delle obbligazioni finanziarie a livello europeo, da una parte, e il tipo di ‘cooperazione delegata’ da sviluppare con ciascun paese, dall’altra, restano senza dubbio punti di riferimento tanto ambiziosi quanto lontani dalla realtà odierna. Il nuovo governo guidato da Gentiloni non è nelle condizioni di riaprire il dossier. Quando era ministro degli esteri, Gentiloni prese posizione sul possibile ruolo italiano nel Mediterraneo. In un intervento del 28 maggio 2015 sulla rivista Foreign Affairs, enfaticamente titolato ‘Pivot to the Mediterranean’, l’attuale capo del governo scrisse che si trattava non soltanto della frontiera meridionale dell’Europa, ma anche di un crocevia geopolitico dove si giocava la sicurezza globale. Da quell’intervento ebbe inizio la fase più intensa che portò, il 28 giugno 2016, alla conquista di un seggio per l’Italia come membro non permanente in Consiglio di sicurezza. L’elezione, scaturita da un accordo di compromesso (l’Italia manterrà il seggio solo per il 2017), fu il principale risultato ottenuto da Gentiloni alla Farnesina. Penso che questo abbia avuto un peso sulla sua nomina alla guida del nuovo governo. Tuttavia, al netto delle debolezze interne, oggi il quadro internazionale è mutato e l’Italia, che ha ottenuto quel seggio proprio sulla scorta del suo possibile impegno nel Mediterraneo, non gode più del sicuro sostegno da parte degli Stati Uniti.

Tuttavia, la convinzione espressa nel ‘migration compact’ ha un valore per la politica estera italiana che va al di là della contingenza politica. Un legame tra scelte di politica estera e politiche sull’immigrazione emerge chiaramente già prima che l’Italia divenisse una frontiera europea. Si pensi alla prima legge in materia di collocamento e di trattamento dei lavoratori extracomunitari, la legge Foschi del 1986, che seguì l’esclusione dell’Italia dagli accordi di Schengen nel 1985; all’iter di approvazione della legge Martelli tra dicembre 1989 e febbraio 1990, influenzato dagli effetti del crollo dei regimi comunisti, in particolare dalla crisi albanese; fino alla legge Turco-Napolitano, approvata durante il primo governo Prodi, quando l’Italia, come enfaticamente si disse, fece il suo ‘ingresso in Europa’ (moneta e frontiere comuni). Le sfide di politica estera e le scelte italiane si sono intrecciate a più riprese, con maggiore o minore consapevolezza, al tema dell’immigrazione.

Certo, la materia delle politiche migratorie a livello europeo resta molto complicata. Come ha ricordato Attinà (commento del 23/11/16), occorrerebbe far chiarezza su chi cerca rifugio oppure lavoro, sul significato della ‘migrazione forzata’, per non parlare della relazione tra problemi di migrazione e problemi di sicurezza e antiterrorismo. Il documento italiano dell’aprile 2016 è un contributo appena sufficiente per impostare una disamina delle iniziative e degli strumenti più idonei per la cooperazione con i diversi paesi africani di origine e di transito. Ma resta, a mio parere, un tassello necessario per impostare una riflessione sul nesso tra politica estera e politiche migratorie. Il fatto di essere divenuta, l’Italia, una frontiera dell’UE impone al governo un ruolo attivo in materia di gestione e controllo dei flussi migratori nel quadro di politiche e finanziamenti europei e in collaborazione con i paesi africani.

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Commenti

  1. Fulvio Attinà dice

    13 Gennaio 2017 at 15:40

    Vediamo se riesco anche a farmi rimproverare dal caro amico Emidio Diodato.
    Sulla mia paginaweb (https://fulvioattina.net) ho postato un commento sui migration compacts e sul compact sottoscritto dall’UE e dal governo libanese nel quale riconosco il valore politico del non-paper italiano. L’emigrazione – in quanto fenomeno economico (ma è anche altro) – sarà ridotta grazie allo sviluppo economico ma lo sviluppo economico dipende da capitali, know-how, fattori di contesto e regole ed è un processo di lungo termine. Il compact fornisce capitali e know-how. Esattamente quello che ha fornito l’aiuto allo sviluppo nei passati 50 e passa anni. Nonostante questo, lo sviluppo non è venuto se non in pochi casi. C’è chi sostiene che la colpa è delle regole tariffarie e non tariffarie del commercio internazionale che sono messe nero su bianco in trattati internazionali che fanno fallire i tentativi di decollo economico di quasi tutti gli stati cosiddetti in via di sviluppo se non si danno favorevoli fattori di contesto (dal regime politico e la good governance alla disponibilità di materie prime strategiche, ad altro ancora). Se questi fattori di contesto ci sono, i risultati ci sono e quegli stati diventano i late-comers del centro dell’economia mondiale.
    Se, nonostante ciò, è giusto dare aiuti in capitali e know-how per lo sviluppo, è ingenuo – e forse ipocrita – non occuparsi delle regole del commercio internazionale. Detto questo e ritornando a parlare dei migranti di oggi, la domanda è: E allora? Che facciamo per chi scappa oggi dal sottosviluppo strutturale in cerca di una vita dignitosa che le regole del commercio internazionale gli impediscono di avere come lo hanno impedito ai suoi genitori e forse anche ai suoi nonni? I politici consapevoli, che per anni hanno gestito l’immigrazione irregolare con politiche permissive che soddisfacevano il bisogno di lavoro a basso costo esistente in Europa, dovrebbero finalmente aprire il discorso con gli elettori sui vantaggi dell’immigrazione.

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