Il referendum del 20 e 21 settembre può essere considerato sotto due profili. Il primo di carattere costituzionale, l’altro relativo al suo significato politico.
Sotto il primo profilo, la valenza riformatrice della riduzione secca dei parlamentari, che è oggetto del referendum, appare del tutto residuale, se non nulla. La misura sottoposta al voto dei cittadini, infatti, non interviene su nessuno dei punti dolenti o sulle parti invecchiate o bisognose di manutenzione della nostra carta costituzionale.
Non corregge il bicameralismo paritario, che costituisce un poco invidiabile primato nazionale. Non riequilibra il rapporto tra stato e regioni, che la infausta riforma del 2001 ha improvvidamente sbilanciato a favore delle regioni, minacciando l’unità della repubblica. Non modifica la forma di governo e neanche assicura, sia pure indirettamente, una maggiore stabilità all’esecutivo.
Si tratta, invece, di un taglio dei parlamentari distribuito simmetricamente tra le due camere. Anche i fautori più ragionevoli della riforma, cioè i pochi non appiattiti sulle posizioni anti-casta, ammettono il carattere minimale del provvedimento: «questo passa il convento», dicono, «ed è meglio di niente».
In sostanza, siamo di fronte a un referendum minimale che affronta in maniera semplicistica un problema non essenziale. Simili considerazioni sono già ampiamente sufficienti a motivare il No. Un No che aiuterà anche a rimettere al centro dell’agenda politica il tema di una seria riforma costituzionale. Tuttavia, credo che ulteriori, cogenti motivi a favore di questo orientamento di voto risaltino da un’analisi del significato politico del referendum.
Sotto questo profilo va anzitutto rilevato che la legge costituzionale oggetto del referendum è una misura bandiera del Movimento 5stelle. Si tratta di un provvedimento che riassume in modo sintetico la filosofia di fondo, per così dire, della loro proposta politica: penalizzare la casta dei politici, ed in questi termini viene percepita dalla opinione corrente.
Non a caso, la formula giornalistica con cui si riassume abitualmente l’oggetto del referendum è quella del «taglio dei parlamentari» ovvero, e più corrivamente, del «taglio delle poltrone», riprendendo il disegno contenuto in uno striscione che i pentastellati esibirono in piazza Montecitorio al momento dell’approvazione della legge costituzionale. Pertanto, i profili punitivi e/o vendicativi, nei confronti della classe politica e dei rappresentanti eletti, sono quelli comunemente associati a questa consultazione referendaria.
Tale caratterizzazione della campagna referendaria, se esprime bene la visione del mondo pentastellata, si collega poi ad un calcolo politico preciso. Alle ultime elezioni politiche, nel marzo 2018, il partito di Casaleggio e Grillo ha ottenuto il 32% dei voti validi espressi, affermandosi come il partito di maggioranza relativa.
Da allora, le fortune politiche del movimento grilllino sono andate declinando. Tant’è vero che adesso i sondaggi lo accreditano tra i 16 ed il 18%. Una vittoria dei Sì al prossimo referendum costituirebbe un tonico importante per arrestare l’emorragia di consensi. Una sconfitta, al contrario, sarebbe il segnale di un declino probabilmente definitivo.
In buona sostanza la partita politica sottesa alla consultazione del prossimo 20 e 21 settembre si può così sintetizzare: vogliamo rafforzare il Movimento 5stelle o vogliamo indebolirlo? Vogliamo che le fortune di questa forza antisistema declinino rapidamente o vogliamo che il partito grillino resti forte? La risposta, per chiunque ha a cuore le sorti della nostra fragile democrazia, non può essere dubbia.
Dino Cofrancesco dice
Sono completamente d’accordo