[Editoriale di «Paradoxa» 4/2022, “Giovani e società. Fine della trasmissione?”, a cura di Mario Morcellini]
C’era una volta, molti anni fa, un momento preciso della giornata – per l’esattezza le 23.30 in punto – in cui l’Italia tutta si ritrovava affratellata da un sottile senso di angoscia: era quando, sullo sfondo di un cielo nuvoloso e col sottofondo mesto e solenne delle Armonie del pianeta Saturno di Roberto Lupi, lo schermo televisivo mostrava il lento movimento di un traliccio che preludeva alla comparsa della fatidica scritta: «Fine delle trasmissioni». Lo stop alla comunicazione era unilaterale e irrevocabile: da quel momento, fino al giorno successivo, la televisione non aveva più niente da dire o da offrire, e non c’erano alternative. La resa dell’utente era inevitabile.
Il sottotitolo di questo fascicolo evoca del tutto consapevolmente quello stesso senso di smarrimento, appena attutito da un punto di domanda, che si prova quando si è, come si dice, piantati in asso; e lo fa selezionando subito su base anagrafica la comunità in grado di cogliere l’allusione preistorica: una comunità che si raccoglie attorno allo sgomento provocato dall’eventualità, sentita come nient’affatto remota, che si interrompa la trasmissione nel senso più radicale del termine, quello del tramandamento, della tradizione, di quel passaggio di consegne tra generazioni, senza di cui la trama del tessuto sociale si sfalda. ‘Loro’, i nativi digitali, virtualmente iperconnessi e di fatto isolati, colpiti da una pandemia che ha reso ancor più fragile la fragilità inevitabile di chi è ancora in costruzione; loro, insomma, quelli che per approssimazione chiamiamo i ‘giovani’, sembrano disinteressati ad ogni interazione comunicativa tradizionale e dunque intergenerazionale: refrattari a politica, cultura, religione, informazione e, in definitiva, a «tutto ciò che non è organico alla moltiplicazione infinitesimale delle interazioni in rete» (Morcellini, p. 21). Su questa diagnosi, variamente elaborata nei contributi che seguono, ‘noi’ convergiamo fin troppo facilmente: ma non si coglierebbe il punto decisivo della riflessione complessiva qui proposta se ci si fermasse a questo. A ben guardare, infatti, quel che il fascicolo prova a mettere in opera è una conversione – o ritorsione – dello sguardo, in modo che, nel mettere a tema loro, ci si interroghi in realtà prima di tutto su di noi, sul modo in cui noi categorizziamo, interpretiamo, diagnostichiamo, spesso deprechiamo, non sempre con le dovute cautele metodologiche.
Fin dal contributo di apertura, il lettore è invitato a focalizzare l’attenzione sul fatto che la percezione di incomunicabilità è in larga misura inevitabile, perché iscritta nella natura della complicata interazione tra giovani e adulti: i primi, infatti, sono per definizione operatori di innovazione di quelle regole, di quei linguaggi e quei paradigmi di riferimento che sono invece elementi costitutivi e consolidati dell’identità dei secondi; i quali, di conseguenza, tendono a recepire ogni segnale di non conformità in termini di devianza, rifiuto o potenziale minaccia. Come scrive efficacemente il Curatore, le «nostre retine ‘adultocentriche’» (p. 18) non sono proprio in grado di vedere il fenomeno per quel che è, sono troppo lente e filtrano a modo loro: restituiscono tutto in termini di opposizione e contrasto, quasi che i giovani fossero necessariamente mossi dalla precisa volontà di essere contro quel che li precedeva. Ma quest’ottica ipersemplificata si rivela due volte inefficace.
In primo luogo, il restare abbarbicati al modello di un conflitto dialettico tra valori e contro-valori rischia di non cogliere la radicalità del problema, perché il conflitto è ancora una forma di mediazione, mentre quel che emerge come tratto specifico delle nuove generazioni sembra essere piuttosto il drastico rifiuto di quest’ultima: sogno alimentato dall’immediatezza della rete e dall’annullamento di distanze e alterità che essa sembra rendere possibile. Se questo è vero, per cogliere il cuore di questa situazione servono categorie diverse ed elaborate ad hoc: il problema non sono tanto i contro-valori, quanto piuttosto i «disvalori»; non è la contro-socializzazione, ma semmai quel che qui viene tecnicamente definito da diversi autori come «desocializzazione».
In secondo luogo, una lettura controdipendente non consente di cogliere il versante construens di tale desocializzazione, che non si esaurisce nella demolizione, ma prefigura nuove piattaforme di socializzazione. In alcuni contributi viene richiamata l’attenzione su segnali interessanti in questo senso e per lo più marginalizzati dalle diagnosi dominanti perché in controtendenza: l’emergere di un nuovo e globale senso di responsabilità verso il pianeta, l’attenzione alla giustizia sociale e al rispetto dei diritti umani, il coinvolgimento in attività di volontariato (Romeo e Pacelli); elementi cui si può aggiungere persino un rapporto nient’affatto scontatamente avverso alla forma di trasmissione più tradizionale che si possa pensare, ossia la scrittura/lettura: i lettori che si perdono (Lombardinilo) non sono banalmente dei non-lettori.
In conclusione, l’esercizio sistematico del doppio sguardo praticato in queste pagine, di uno sguardo che occhieggia in tralice noi mentre prova ad osservare loro, consente e forse impone di resistere alla tentazione di togliere il punto interrogativo alla domanda sulla fine della trasmissione, e di prendere atto del fatto che molto spesso l’interruzione della comunicazione non viene dai ‘giovani’, ma da un pessimismo a buon mercato che è tutto nostro.
Alessandro Cavalli dice
L’accelerazione del cambiamento fa in modo che la distanza tra generazioni si sia accresciuta, ma questo richiede uno sforzo maggiore da parte degli adulti se vogliono comunicare con i giovani. Questo è particolarmente grave se si tratta di insegnanti, la cui età media, oltretutto, si è notevolmente accresciuta per effetto di un sistema di reclutamento inadeguato.