[*L’articolo è stato scritto dall’Autore insieme a Marzia Antenore]
Secondo l’Oxford English Dictionary, ‘Post-Truth’ è la parola più importante del 2016, quella che meglio riflette il clima dell’anno trascorso. Il comitato di esperti incaricato della selezione da una shortlist di tutto rispetto, la definisce come condizione «in cui i fatti oggettivi risultano meno influenti del ricorso alle emozioni e alle credenze personali nel formare l’opinione pubblica». La scelta è certo influenzata da due eventi politici epocali, legati al mondo anglosassone. La Brexit e l’elezione di Trump alla Casa Bianca, entrambi attribuiti al ciclo di informazione intenzionalmente mendace, circolata senza controllo durante le campagne elettorali. Ha ragione Antonio Nicita quando, sul «Foglio», scrive che vi è un destino comune che lega l’uomo dell’anno per Time, Donald Trump, con la parola dell’anno, ‘post-verità’, se l’interesse principale del candidato presidenziale è infiammare i cittadini invece che informarli sui fatti. In effetti, il prefisso ‘post’ non definisce tanto parametri temporali – un periodo successivo a un determinato evento – quanto vere e proprie coordinate concettuali: ‘post’ come momento in cui il sostantivo a cui ci si riferisce è diventato poco importante o addirittura irrilevante. Se nel 2003 lo studioso inglese Colin Crouch parla già di ‘post democrazia’, nel 2016 il primato dell’irrisorietà spetta nientemeno che alla Verità. La quale, detto francamente, nel metaracconto mediale già non godeva di ottima salute. Per chi conosce la manualistica sui media, non sarà sfuggito che, quando si parla di comunicazione, la Verità non ha niente a che vedere con ciò che è intrinsecamente oggettivo, reale, fattuale. Nella migliore delle ipotesi, essa è afferrabile solo facendo riferimento al contesto in cui si produce lo scambio comunicativo. Nei casi peggiori è un artificio narrativo al servizio della persuasione e del profitto. In tempi più recenti, nell’era dell’informazione 2.0, la distinzione tra ‘fatti’ – basati su dati o eventi, osservazioni empiriche puntuali, riscontri oggettivi e ‘notizie’ – caratterizzate da approssimazione, criteri di circolazione opachi e opinabili, frammentarietà e rapida obsolescenza – viene giudicata sempre più necessaria, per cui alla veridicità dei primi si oppone l’intrinseco sospetto di mendacia delle seconde. Eppure, nel web le cosiddette bufale (o ‘fatti alterativi’ come ama definirli il neo presidente americano, come ci ricorda Rossana Miranda su Formiche.net) hanno un successo senza precedenti in barba a qualsiasi distinguo teorico: secondo alcuni studi, gli utenti condividono sulle loro bacheche articoli che non hanno letto o dei quali hanno spesso adocchiato solo l’incipit. Non c’è alcuna forma di fact-checking sull’informazione ricevuta, dilaga il click-baiting, fatto di notizie sensazionalistiche per acchiappare click e like. Siamo quindi di fronte a una condizione quanto mai paradossale: viviamo nell’epoca della sovraesposizione informativa, delle fonti diffuse, ma allo stesso tempo nessuno sente il bisogno di controllare la veridicità delle news che contribuisce a far circolare. Probabilmente volendo cercare possibili colpevoli, vi sono senz’altro responsabilità individuali, di chi alimenta il circuito della post-verità immettendo regolarmente materiale fresco. Ma il problema non può essere affrontato e arginato ricorrendo a espedienti cautelari se non a patto che il sistema politico e, soprattutto, l’autonomia dei media non aprano una riflessione e vertenza più radicale sul tema. Sul terreno politico-elettorale ha avuto grande risonanza la proposta di Grillo per l’istituzione di un comitato di cittadini-garanti cui attribuire il compito di vigilare sulla veridicità delle notizie fornite dai media complottisti. Qualcuno, però, ha fatto acutamente notare che tale comitato già esiste e si chiama ‘pubblico dei lettori’. Da parte dei grandi colossi dell’informazione come Facebook, Google e Microsoft vi è già un impegno ad eliminare tutte le informazioni false che possano fomentare discriminazioni di genere, razza e orientamento sessuale. Lo stesso Zuckerberg, fondatore di Facebook, ha annunciato che la piattaforma consentirà agli utenti di segnalare direttamente le fake news attraverso un sistema che sfrutta l’ormai classico meccanismo di controllo incrociato tra pari. Un ruolo cruciale potrebbero averlo ancora i giornalisti che, formatisi al cosiddetto ‘approccio neutrale’ (quello che dà voce a ‘tutte’ le posizioni in campo su uno specifico argomento), nondimeno trascurano a volte che, nel mercato delle opinioni, non sempre ‘uno vale uno’. In un articolo o servizio televisivo sul rapporto tra vaccini e autismo, tanto per citare un esempio che ha occupato il dibattito lo scorso anno, non possono avere uguale peso le dichiarazioni di medici o ricercatori e le opinioni di un personaggio dello star system la cui competenza specifica è del tutto auto-referenziale.
E d’altra parte, la storia del secolo scorso dimostra che per ogni Verità, anche la più atroce e documentata, c’è sempre chi sostiene la tesi della menzogna e del complotto. Forse ha ragione il protagonista di una delle migliori serie tv di questi anni, il pubblicitario americano Don Draper di Mad Men: a chi lo accusa di «produrre solo balle» a profitto del dispotismo del mercato, così replica laconicamente: «non c’è nessuna grande menzogna, nessun sistema: l’universo è indifferente».
Dino Cofrancesco dice
False notizie per creare il panico,media che non producono conoscenze ma attivano emozioni,demagoghi che parlano alla pancia della gente e bla bla bla.Tutto vero. tutto inconfutabile ma temo che denunce e allarmi sulla democrazia minacciata e svuotata dai demagoghi facciano dimenticare che le risposte ‘populiste’,grilline, trumpiste siano risposte sbagliate a PR0BLEMI REALI che il perbenismo, il politically correct delle classi dirigenti occidentali non sono in grado neppure di capire.