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Occidente. Il visconte dimezzato

13 Aprile 2023 di Dino Cofrancesco 1 commento

Sinceramente non so cosa significhi l’Occidente. Da storico delle idee politiche potrei solo dire cosa ha significato per quei pensatori, quei filosofi, quei profeti che ne hanno fatto l’esaltazione o la denigrazione. Credo di poter dire qualcosa, invece, sulle colonne portanti della civiltà euroatlantica che, nell’attuale dibattito tra neo-illuministi e vetero-tradizionalisti, sembrano ignorate. A mio avviso ciò che ha reso grande quella civiltà – a cominciare dai suoi esordi nell’antica Ellade – è la capacità di tenere in equilibrio il legame col passato e la proiezione verso il futuro, Cincinnato, il console povero attaccato ai suoi quattro iugeri di terra fuori dell’urbe, e Ulisse, nella versione dantesca ansioso di varcare «quella foce stretta dov’Ercule segnò li suoi riguardi», convinto che l’uomo non debba viver come bruto ma «per seguir virtute e canoscenza». In fondo, l’essenza della nostra civiltà poteva dirsi eroicamente tragica e conflittuale. Ricorrendo alle categorie di Ferdinand Toennies, «comunità» (il senso profondo delle radici) e «società» (la libertà che spezza le catene del passato) in duemila anni di storia, si confrontarono incessantemente, si combatterono spesso violentemente, vennero a compromessi, non destinati a durare. È nella tragedia antica che si manifesta l’insopprimibile dualità che segna il cammino dell’Occidente. Nell’Antigone di Sofocle, troviamo quella tra etica e politica. Ad Antigone che obietta al tiranno di Tebe: «Neppure pensavo i tuoi decreti avere tanta forza che tu uomo potessi calpestare le leggi degli dèi, quelle leggi non scritte e indistruttibili. Non soltanto da oggi né da ieri, ma da sempre esse vivono, da sempre: nessuno sa da quando sono apparse», Creonte risponde: «È l’anarchia il pessimo dei mali: distrugge le città e sconvolge le case, mette in fuga e fa a pezzi gli eserciti in battaglia. Ma è l’ubbidienza, l’ubbidienza ai capi la fonte di salvezza e di vittoria. Noi dobbiamo ubbidire alle leggi, alle leggi scritte». Le ragioni degli «agrafoi nomoi» e quelle dell’ordine e della tradizione, nel loro insopprimibile contrasto, segnano la storia di Roma, quella delle città medievali in conflitto con l’Impero, quella del mondo moderno. Nell’età dei Lumi, si fronteggiano Edmund Burke e Thomas Paine. Al primo che, nelle Riflessioni sulla Rivoluzione francese, invitava a seguire «i nostri antenati, […] che rispettando la ragione degli altri, guardando indietro oltreché avanti, con la modestia oltre che con l’energia delle loro menti, poterono gradualmente e insensibilmente avvicinare questa Costituzione alla sua perfezione, senza mai staccarsi dai suoi principi fondamentali né introdurre alcun emendamento che non avesse già radici vive nelle leggi, nei costumi e negli usi del paese», il secondo, in The Age of Reason ribatte che «Tutte le istituzioni nazionali delle chiese, sia ebrea, che cristiana o turca, mi sembrano nient’altro che invenzioni umane, collocate per terrorizzare e schiavizzare l’umanità, e monopolizzare il potere e il profitto».

Sarà il liberalismo ottocentesco a tenere la barra al centro: alla critica dell’Illuminismo non sacrificò l’apprezzamento del kantiano sapere aude, e, in tal modo, si fece artefice del ‘grande compromesso’ tra Ragione e Tradizione alla base di una delle istituzioni che più contribuirono alla libertà e all’eguaglianza dei popoli, lo stato nazionale, anello di congiunzione tra la Tribù e l’Universo, per riprendere la definizione di un geniale allievo di Raymond Aron e di François Furet, Pierre Manent. Lo stato nazionale si prefisse la custodia delle appartenenze, dei costumi, dei retaggi storici ma, nello stesso tempo, intese estendere quei ‘beni culturali’ a tutta la popolazione ricompresa nel suo ambito territoriale. Diritti individuali e diritti storici trovarono un bilanciamento e lo ‘stato di diritto’ convisse per anni con lo stato imperiale e coloniale – giustificato, quest’ultimo, in nome del progresso civile anche da autentici liberali come John Stuart Mill.

Fu la prima guerra mondiale il grande spartiacque. Il conflitto mortale – che non fu tra stati nazionali, come superficialmente si continua ad affermare, ma tra stati imperiali, intesi a preservare i loro domini coloniali e/o continentali – fu la drammatica dialisi che scisse Nazione e Democrazia, degradando la prima a tribù e la seconda a rullo compressore di tutte le identità storiche. Col risultato che i nazionalisti diventarono l’espressione della vendetta delle ‘radici’ su quanti avrebbero voluto estirparle in nome delle ‘magnifiche sorti’ e i democratici s’incamminarono verso la delegittimazione di tutto ciò che sapeva di chiusura, di frontiere, di cittadinanza esclusiva. Come nel celebre racconto di Italo Calvino, la Grande guerra divise in due il visconte europeo, anche se non ci fu accordo su quale fosse la parte buona e quale la parte malvagia sicché molti popoli si riconobbero nella seconda, non considerandola tale.

Che la ‘comunità’ e la ‘società’ siano entrambe inscritte nell’umano, che siano bisogni insopprimibili, al di là delle epoche e dei regimi politici, è una consapevolezza che sembra purtroppo definitivamente perduta: basta leggere il libro di Aldo Schiavone, L’Occidente e la nascita di una civiltà planetaria, per convincersene. Da tempo il ‘pensiero progressista’, in tutte le sue varianti, bolla di ‘nazionalismo’, ‘sovranismo’, di ‘populismo’ tutti quei movimenti politici, quei gruppi di interesse, quelle aree politiche che sfuggono alla presa pedagogica del Republicanism antifascista. Si tratta, per la cultura egemone, delle figure del Male che la spada sfavillante della Scienza, della Globalizzazione, dell’Universalismo etico sans frontières deve ricacciare nell’Inferno. È la ‘scuola di pensiero’ che si mette a lutto se, in un paese occidentale, la destra va al governo, in una libera competizione popolare. Ha scritto una prefica dell’ideologicamente corretto: nel mondo «in cui viviamo, integralismi, nazionalismi e pregiudizi di varie specie e indirizzi sembrano aver chiuso ogni spazio per qualsiasi confronto, all’interno di ‘orizzonti’ sempre più angusti». Non assistiamo, secondo questo stile intellettuale, al politico avvicendarsi fisiologico tra destra e sinistra ma alla terra bruciata che la seconda vorrebbe predisporre per la prima. Forse la vera eredità negativa (accanto alle tante altre positive) dell’Illuminismo è proprio la risacralizzazione – non più religiosa ma laica – della lotta politica. Quanti frenano sulle riforme, si ritengono vittime della globalizzazione, restano fedeli ai vecchi codici morali – Dio, Patria e Famiglia, «che vita de merda!» secondo Monica Cirinnà –, rimpiangono i tempi in cui una qualche forma di solidarietà nazionale impediva un confronto troppo serrato tra le classi e i gruppi di interesse, vengono ormai visti come devianti, che vorrebbero fermare o far indietreggiare la locomotiva della storia. Nell’arena politica, secondo i Pangloss della modernità cha avanza inarrestabile, la vittoria dovrebbe essere garantita alla squadra che guarda al futuro. A questo punto, però, si profila un nuovo sansimonismo – inteso come tecnocrazia politica –, che non si rassegna più al fatto che la vera democrazia (liberale) è quella che pone i valori e gli interessi sullo stesso piano e affida alla competizione elettorale la decisione su quali debbano ispirare leggi e strategie governative. Possono vincere anche quelli che non ci piacciono – a me ad es., non piace affatto Donald Trump – ma non abbiamo alcun diritto di considerarli moralmente degeneri e intellettualmente ritardati – come fa, in sostanza, Vittorio Hösle nel saggio Forze centrifughe globali. Una mappatura filosofica del presente (La Scuola di Pitagora, 2022). E, in ogni caso, se gli ‘altri’ vanno al potere non è un vulnus, un peccato contro lo Spirito dell’Occidente. Posto che il termine voglia dire qualcosa e non sia un fantasma che serve solo a trasformare un conflitto tradizionale tra gli Stati sovrani – come, ad esempio, la guerra in Ucraina scatenata dagli appetiti territoriali di una Russia revanscista – in una crociata delle virtuose Democrazie contro le predatrici Autocrazie.

Una volta dimezzato il Visconte europeo siamo costretti a convivere, da un lato, con i neo-tradizionalisti comunitari, che vorrebbero rimuovere l’eredità dei Lumi, e la Tradizione intendono come adorazione delle ceneri non come custodia della fiamma sempre viva dell’Umanità; dall’altro, con i supernovisti, che vedono nel Passato una pagina da rimuovere, un catalogo di violenze e di nefandezze che, in definitiva, giustificherebbero la cancel culture. In fondo ai primi s’intravede il profilo della popperiana «società chiusa», in fondo ai secondi il mondo ‘incuboso’ dell’orwelliano 1984.

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Commenti

  1. Giuseppe IERACI dice

    20 Aprile 2023 alle 17:22

    Bellissimo e profondissimo articolo. Concordo pienamente con l’analisi e l’immagine letteraria del “dimezzamento” – di qua la comunità, di là la società – certo frutto della contemporaneità, la I GM ma forse anche prima (il “dimezzamento” lo avevano implicitamente posto le nazioni “imperialistiche” che nascono nell’ottocento e che giustamente Cofrancesco indica come le protagoniste delle guerre novecentesche).
    Solo non capisco il nesso – molto dubbio, secondo me – che Cofrancesco pone tra l’Illuminismo e i cretini della Cancel Culture.
    Recentemente, ad esempio, Netflix ha mandato uno sceneggiato su Cleopatra, nel quale la regina era naturalmente di pelle scura (non posso dire n*), ignorando che nell’Egitto antico i Nubiani (cioè gli egiziani di pelle scura) occupavano – disgraziatamente, certo -posizioni basse nella gerarchia sociale.
    Quello sceneggiato è un prodotto dell’Illuminismo? Direi proprio di no. E’ il parto della mente in un cretino o di un ignorante.

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